NOTE A MARGINE DELLA SENTENZA “LACTALIS” – CORTE DI GIUSTIZIA UE – CAUSA C-485/18

avv. Valeria Pullini

 

Particolare rilevanza assume la recentissima sentenza della Corte di Giustizia UE del 1° ottobre 2020, in causa C-485/18, più comunemente nota come “sentenza Lactalis”.

Si tratta di una pronuncia in tema di indicazione obbligatoria del Paese di origine o del luogo di provenienza di alimenti, prevista a mezzo dell’adozione di disposizioni nazionali che introducono l’obbligo di indicazioni obbligatorie ulteriori rispetto a quelle previste dalle norme europee.

La Corte di Giustizia dell’Unione si è pronunziata ad esito di un rinvio pregiudiziale a seguito di domanda presentata nell’ambito di una controversia tra il Gruppo Lactalis, da un parte, e il Primo Ministro, il Ministro della Giustizia, il Ministro dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, nonché il Ministro dell’Economia e delle Finanze francesi, in merito alla legittimità del decreto francese n. 2016/1137, relativo all’indicazione dell’origine del latte nonché del latte e delle carni utilizzati come ingredienti.

Nel 2016, la Lactalis proponeva dinanzi al Consiglio di Stato francese un ricorso diretto all’annullamento del decreto predetto.

A sostegno delle proprie conclusioni, la Lactalis deduceva alcuni motivi relativi alla violazione, da parte di tale decreto, degli articoli 26, 38 e 39 del Reg. (UE) n. 1169/2011, in materia di informazioni sugli alimenti ai consumatori.

In aiuto alla memoria e per quanto qui interessa, i suddetti articoli che, secondo Lactalis, sarebbero stati violati, così dispongono:

Art. 26 – Paese di origine o luogo di provenienza

(…) 2. L’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza è obbligatoria:

  1. a) nel caso in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento, in particolare se le informazioni che accompagnano l’alimento o contenute nell’etichetta nel loro insieme potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento abbia un differente paese d’origine o luogo di provenienza; (…)
  2. Entro il 13 dicembre 2014, la Commissione presenta al Parlamento europeo e al Consiglio relazioni sull’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza per i seguenti alimenti: (…)

b) il latte;

c) il latte usato quale ingrediente di prodotti lattiero-caseari;

 

Art. 38 – Disposizioni nazionali

  1. Quanto alle materie espressamente armonizzate dal presente regolamento, gli Stati membri non possono adottare né mantenere disposizioni nazionali salvo se il diritto dell’Unione lo autorizza. Tali disposizioni nazionali non creano ostacoli alla libera circolazione delle merci, ivi compresa la discriminazione nei confronti degli alimenti provenienti da altri Stati membri.
  2. Fatto salvo l’articolo 39, gli Stati membri possono adottare disposizioni nazionali concernenti materie non specificamente armonizzate dal presente regolamento purché non vietino, ostacolino o limitino la libera circolazione delle merci conformi al presente regolamento.

Art. 39 – Disposizioni nazionali sulle indicazioni obbligatorie complementari

  1. Oltre alle indicazioni obbligatorie di cui all’articolo 9, paragrafo 1, e all’articolo 10, gli Stati membri possono adottare, secondo la procedura di cui all’articolo 45, disposizioni che richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifici di alimenti per almeno uno dei seguenti motivi: a) protezione della salute pubblica; b) protezione dei consumatori; c) prevenzione delle frodi; d) protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, delle indicazioni di provenienza, delle denominazioni d’origine controllata e repressione della concorrenza sleale.
  2. In base al paragrafo 1, gli Stati membri possono introdurre disposizioni concernenti l’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti solo ove esista un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza. Al momento di notificare tali disposizioni alla Commissione, gli Stati membri forniscono elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni.

LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI

Il Consiglio di Stato francese ha deciso, così, di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se l’articolo 26 del regolamento [n. 1169/2011], che stabilisce, in particolare, che la Commissione presenta al Parlamento europeo e al Consiglio relazioni sull’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza per il latte e per il latte usato come ingrediente, debba essere inteso nel senso che esso ha espressamente armonizzato detta materia ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 1, del medesimo regolamento e osti al riconoscimento agli Stati membri della facoltà di adottare disposizioni che richiedano ulteriori indicazioni obbligatorie sulla base dell’articolo 39 di detto regolamento.

2) Ove le disposizioni nazionali siano giustificate dalla protezione dei consumatori ai sensi dell’articolo 39, paragrafo 1, [del regolamento n. 1169/2011], se i due criteri di cui al paragrafo 2 di detto articolo per quanto riguarda, da una parte, il nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza e, dall’altra, la prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni, debbano essere letti congiuntamente e, in particolare, se il giudizio sul nesso comprovato possa essere fondato su elementi soltanto soggettivi concernenti l’importanza dell’associazione che la maggior parte dei consumatori può compiere tra le qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza.

3) Se, nella misura in cui sembri che le qualità dell’alimento possano essere intese come riferite a tutti gli elementi che contribuiscono alla qualità dell’alimento, le considerazioni collegate alla capacità dell’alimento di resistere al trasporto e ai rischi di una sua alterazione nel corso del tragitto possano rilevare nel quadro della valutazione dell’esistenza di un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza, ai fini dell’applicazione dell’articolo 39, paragrafo 2, [del regolamento n. 1169/2011].

4) Se la valutazione delle condizioni fissate nell’articolo 39 [del regolamento n. 1169/2011] presupponga di considerare le qualità di un alimento come uniche a causa della sua origine o della sua provenienza o come garantite da detta origine o provenienza e, in quest’ultimo caso, se, malgrado l’armonizzazione delle norme sanitarie e ambientali applicabili in seno all’Unione europea, la menzione dell’origine o della provenienza possa essere più precisa di una menzione sotto forma di “UE” o “extra UE”».

Come ha poi chiarito la Corte, le predette questioni possono essere decriptate e riassunte nel seguente modo.

Con la prima questione, il Consiglio di Stato francese ha sostanzialmente chiesto se l’art. 26 del Reg. (UE) n. 1169/2011 debba essere interpretato nel senso che l’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza del latte e del latte usato quale ingrediente debba essere considerata una «materia espressamente armonizzata» da tale regolamento e, in caso affermativo, se il predetto art. 26 osti a che gli Stati membri adottino disposizioni che impongano indicazioni obbligatorie ulteriori, sulla base dell’art. 39.

Con la seconda questione, il Consiglio di Stato francese ha chiesto, in sostanza, se in presenza di disposizioni nazionali che siano giustificate, alla luce del paragrafo 1 dell’art. 39 del Reg. (UE) n. 1169/2011, dalla protezione dei consumatori, i due requisiti di cui al paragrafo 2 di detto articolo – vale a dire l’esistenza di un «un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza», da un lato, e gli «elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni», dall’altro – debbano essere intesi congiuntamente, cosicché l’esistenza di tale nesso comprovato può essere valutata solo sulla base di elementi soggettivi, attinenti al valore dell’associazione che la maggior parte dei consumatori può stabilire tra talune qualità dell’alimento di cui trattasi e la sua origine o provenienza.

Con le questioni terza e quarta, esaminate dalla Corte congiuntamente, il Consiglio di Stato francese ha chiesto se la nozione di «qualità dell’alimento» – di cui all’art. 39, paragrafo 2, del Reg. (UE) n. 1169/2011 -includa la capacità dell’alimento di resistere al trasporto e ai rischi di alterazione nel corso del tragitto, cosicché tale capacità possa rilevare ai fini della valutazione dell’esistenza di un eventuale «nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza», di cui alla suddetta disposizione.

 

LE ARGOMENTAZIONI E CONCLUSIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA

  1. La prima questione

La Corte ha osservato che nessuna disposizione del Reg. (UE) n. 1169/2011 si occupa specificamente dell’indicazione del Paese d’origine o del luogo di provenienza del latte e del latte usato quale ingrediente.

L’art. 9 di detto regolamento, il quale riporta l’elenco delle indicazioni che devono obbligatoriamente figurare sugli alimenti, stabilisce, invece, che l’indicazione del Paese d’origine o del luogo di provenienza di un alimento è obbligatoria ove previsto dal successivo art. 26.

A sua volta – e come noto – l’art. 26, parag. 2, lett. a), prevede che l’indicazione del Paese d’origine o del luogo di provenienza è obbligatoria nel caso in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento stesso.

Da ciò consegue che il Reg. (UE) n. 1169/2011 armonizza espressamente la materia dell’indicazione obbligatoria del Paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti nei casi in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore, assoggettando tutti gli alimenti a tale armonizzazione espressa, compresi il latte e il latte usato quale ingrediente

Non vi è armonizzazione espressa, invece, per quanto riguarda altre ipotesi o situazioni.

Per tale motivo, l’art. 26 del Reg. (UE) n. 1169/2011 non osta a che gli Stati membri adottino disposizioni che impongano ulteriori indicazioni obbligatorie, purché siano rispettati i requisiti di cui all’art. 39 del regolamento medesimo.

Quanto sopra significa che tali ulteriori indicazioni obbligatorie possono riguardare solo «tipi o categorie specifici di alimenti» e non tutti gli alimenti in generale.

Da tutto ciò consegue che tali indicazioni possono riguardare il Paese d’origine o il luogo di provenienza di un tipo o di una categoria specifica di alimenti, come il latte e il latte usato quale ingrediente, purché riguardino ipotesi o situazioni diverse dal caso – oggetto di armonizzazione espressa – in cui l’omissione dell’indicazione di tale Paese d’origine o di tale luogo di provenienza possa indurre in errore il consumatore.

  1. La seconda questione

L’art. 39, parag, 2, del Reg. (UE) n. 1169/2011 è caratterizzato da una struttura e da una formulazione precise.

Tale norma stabilisce, in primis, che gli Stati membri possono introdurre ulteriori disposizioni concernenti l’indicazione obbligatoria del Paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti:

1) solo ove esista un nesso comprovato tra talune qualità di detti alimenti e la loro origine o provenienza,

e, in secondo luogo, che al momento di notificare tali disposizioni alla Commissione europea, gli Stati membri devono fornire:

2) elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni.

Quindi, al fine di giustificare e rendere fondata l’adozione, in sede nazionale, di disposizioni ulteriori rispetto a quelle previste dalle norme UE, che riguardino l’indicazione obbligatoria dell’origine/provenienza degli alimenti, devono concorrere due requisiti, il secondo dei quali deve intervenire successivamente al primo, in modo accessorio e complementare rispetto ad esso.

Perciò, prima va verificata la sussistenza di un nesso comprovato tra determinate qualità dei prodotti alimentari di cui si tratta e la loro origine o provenienza; successivamente, e solo nel caso in cui sia dimostrata l’esistenza di un tale nesso, andranno verificati e forniti elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisca un valore significativo alla fornitura di tali informazioni.

Tale assunto trova fondamento nella norma generale costituita dall’art. 7 del Reg. (UE) n. 1169/2011, laddove essa stabilisce che le informazioni sugli alimenti non devono suggerire che questi ultimi possiedano caratteristiche particolari, quando, in realtà, altri alimenti analoghi possiedono caratteristiche identiche.

A tale proposito, la Corte ha giustamente osservato che una disposizione nazionale che rendesse obbligatoria l’indicazione del Paese d’origine o del luogo di provenienza di un alimento sulla sola base dell’associazione soggettiva che la maggior parte dei consumatori può stabilire tra detta origine o provenienza e talune qualità dell’alimento stesso, potrebbe suggerire che quest’ultimo possiede qualità particolari legate alla sua origine o alla sua provenienza che in realtà non ha, in quanto l’esistenza di un nesso comprovato tra le une e le altre non è oggettivamente dimostrata.

Per quanto sopra, in ordine alla seconda questione la Corte ha così concluso: l’art. 39 del Reg. (UE) n. 1169/2011 deve essere interpretato nel senso che, in presenza di disposizioni nazionali che siano giustificate dalla protezione dei consumatori, i due requisiti di cui al paragrafo 2 di detto articolo, vale a dire l’esistenza di un «un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza», da un lato, e gli «elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni», dall’altro, non devono essere intesi congiuntamente.

Ciò significa che l’esistenza di tale nesso comprovato deve essere oggettiva ed a sè stante, non potendo essere valutata sulla sola base di elementi soggettivi, attinenti al valore dell’associazione che la maggior parte dei consumatori può stabilire tra talune qualità dell’alimento di cui trattasi e la sua origine o provenienza.

  1. Le questioni terza e quarta

La Corte ha osservato che le «qualità» cui si riferisce l’art. 39, paragrafo 2, del Reg. (UE) n. 1169/2011 sono esclusivamente quelle che presentano un «nesso comprovato» con l’origine o la provenienza degli alimenti che le possiedono.

Pertanto, la capacità di un alimento, come il latte o il latte usato quale ingrediente, di resistere al trasporto e ai rischi di alterazione nel corso del tragitto, non può essere qualificata come «qualità» ai sensi della norma predetta, considerato:

– che una siffatta capacità non è collegata, in modo comprovato, a un’origine o a una provenienza precisa,

– che essa può dunque essere posseduta da alimenti simili non aventi tale origine o provenienza, e

– che di conseguenza essa può essere garantita indipendentemente dalla suddetta origine o provenienza.

Alla luce di ciò, le presenti questioni sono state risolte nel senso che, ex art. 39, paragrafo 2, del Reg. (UE) n. 1169/201, la nozione di «qualità dell’alimento» non include la capacità dello stesso di resistere al trasporto e ai rischi di alterazione nel corso del tragitto, cosicché tale capacità non può rilevare ai fini della valutazione dell’esistenza di un eventuale «nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza».

 

ALCUNE OSSERVAZIONI

Trattasi di una sentenza attesa, considerato che da anni, non solo in Francia, ma anche in Italia, si è molto discusso e si continua a discutere sulla legittimità di questa, possiamo definirla, gragnola di decreti nazionali i quali, in nome di una non meglio identificata salvaguardia del “made in” territoriale, non solo hanno pesantemente condizionato l’operatività degli OSA, ma hanno anche disatteso in più parti le disposizioni del regolamento europeo qui in esame, così violando il principio del primato del diritto dell’Unione su quello nazionale che, come noto, si sostanzia nella prevalenza delle norme europee dotate di efficacia diretta su quelle interne con esse contrastanti, sia precedenti che successive, qualunque sia il rango delle norme interne.

Le questioni risolte dalla Corte di Giustizia che destano la maggiore attenzione sono certamente le prime due relative, rispettivamente, a cosa costituisca oggetto di armonizzazione a livello UE e a quali siano i presupposti ed i requisiti, previsti dal legislatore europeo, per poter legittimamente legiferare in sede nazionale in materie che, ancorché non espressamente armonizzate, devono comunque essere disciplinate in conformità alle previsioni normative e agli obiettivi posti dal legislatore dell’UE.

In particolare, ciò che in sede nazionale ora interessa è costituito dall’impatto che questa sentenza potrà (e dovrà) avere sui decreti interministeriali italiani che, nel biennio 2016-2017, hanno introdotto, in sede nazionale e per gli OSA italiani, l’obbligo dell’indicazione di origine per determinati alimenti e/o ingredienti di alimenti.

Ci si riferisce ai decreti interministeriali “origine latte, grano, riso e pomodoro” (ora anche “carni suine trasformate”, pubblicato nel mese di agosto di quest’anno ed applicabile in via sperimentale sino al 31.12.2021 ) di cui si è parlato su queste pagine di recente, la cui efficacia, come se non bastasse, è anche stata ufficialmente prorogata al 31 dicembre dell’anno venturo.

Ora, fermi restando i problemi di legittimità di tali decreti per essere stati pubblicati in G.U.R.I. senza che previamente sia stata intrapresa l’obbligatoria procedura di notifica alla Commissione secondo l’art. 45 del Reg. (UE) n. 1169/2011 (salvo il decreto “origine latte”), vi è ora da (ri)considerare gli ulteriori profili d’illegittimità di cui tali decreti sono indubbiamente connotati.

In un precedente intervento, oltre che per il motivo poc’anzi ricordato, veniva rilevato il contrasto di tali decreti con il diritto UE e, in particolare, con il Reg. di esecuzione (UE) n. 775/2018, relativo, come noto, all’obbligo di indicazione dell’origine dell’ingrediente primario in determinati casi stabiliti dallo stesso legislatore europeo.

Alla luce di tale normativa, senza dubbio preminente su quella nazionale in tale materia, i ridetti decreti interministeriali avrebbero dovuto cessare di efficacia il 31 marzo 2020, ossia il giorno antecedente la data di entrata in applicazione del regolamento suddetto, 1° aprile 2020. Ciò che, come sappiamo, non è stato.

L’attuale disamina, tuttavia, dovrà fare un passo ulteriore e considerare altri profili di illegittimità che emergono con tutta evidenza dalla sentenza Lactalis, qui in esame, dove la Corte di Giustizia, attraverso le proprie argomentazioni, ha permesso di valutare la questione da una prospettiva nuova ed ancora diversa.

LE MATERIE OGGETTO DI ARMONIZZAZIONE ESPRESSA

Finora, le problematiche connesse alla legittimità dei decreti interministeriali italiani “origine” sono state considerate alla luce del solo art. 38, paragrafo 1, del Reg. (UE) n. 1169/2011, nella parte in cui è stabilito che, nelle materie espressamente armonizzate dal regolamento stesso, gli Stati membri non possono adottare né mantenere disposizioni nazionali, salvo se il diritto dell’Unione lo autorizza.

Si è dato per assodato, quindi, che tali decreti siano intervenuti a regolare, attraverso disposizioni interne diverse ed ulteriori, una materia già oggetto di armonizzazione da parte del diritto UE.

E che l’illegittimità di cui tali decreti sono affetti deriverebbe, da un lato, dal non avere ottenuto apposita autorizzazione, in quanto pubblicati e resi cogenti nel territorio nazionale in assenza di una valida procedura di notifica alla Commissione; dall’altro, dall’essere in contrasto con le norme contenute nel Reg. di esecuzione (UE) n. 775/2018.

In realtà, è vero solo quest’ultimo assunto, poiché la Corte, a mezzo dell’odierna pronunzia ed in relazione alla prima questione pregiudiziale, ha chiarito che il Reg. (UE) n. 1169/2011 armonizza espressamente la materia dell’indicazione obbligatoria del Paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti ai sensi dell’art. 26, paragrafo 2, lettera a), ossia nei casi in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore.

Al di fuori di tale ipotesi, quindi, non vi è armonizzazione espressa ai sensi di tale regolamento.

Pertanto, se – come nel caso dei “decreti italiani origine” – si considerano “tipi o categorie specifici di alimenti” (v. latte, grano, riso, pomodoro, carni suine) e per tali tipologie di alimenti si intende adottare, in ambito interno, disposizioni che impongono indicazioni obbligatorie ulteriori in tema di origine, non sarà tanto il paragrafo 1 dell’art. 38 a dover essere considerato, quanto l’art. 39, paragrafo 2, del Reg. (UE) n. 1169/2011, laddove vengono stabiliti i presupposti ed i requisiti affinché gli Stati membri possano introdurre disposizioni concernenti l’indicazione obbligatoria del Paese d’origine o del luogo di provenienza per tali specifici alimenti.

Quindi, tali disposizioni possono riguardare il Paese d’origine o il luogo di provenienza di un tipo o di una categoria specifica di alimenti, come il latte e il latte usato quale ingrediente, purché considerino ipotesi o situazioni diverse dal caso in cui l’omissione dell’indicazione di tale Paese d’origine o di tale luogo di provenienza possa indurre in errore il consumatore.

Solo quest’ultima ipotesi, come detto, è oggetto di armonizzazione espressa ex Reg. (UE) n. 1169/2011.

IL (MANCATO) RISPETTO DEL DISPOSTO DI CUI ALL’ART. 39, PARAGRAFO 2, DEL REG. (UE) N. 1169/2011

Alla luce di quanto emerso ed appurato che le qui considerate disposizioni sull’indicazione obbligatoria di origine o provenienza di tali specifiche tipologie alimentari non è oggetto di armonizzazione espressa ai sensi del Reg. (UE) n. 1169/2011, è il caso ora di valutare se i nostri “decreti origine” possano o meno considerarsi conformi al dettato dell’art. 39, paragrafo 2 del regolamento stesso.

Sul punto, come si è visto, in risposta alla seconda questione pregiudiziale, la Corte ha chiarito che i due requisiti di cui al paragrafo 2 di detto articolo, ossia:

– l’esistenza di «un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza», da un lato,

e

– gli «elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni», dall’altro,

non devono essere intesi congiuntamente.

Pertanto, come sopra detto, l’esistenza del nesso comprovato deve essere oggettiva, non potendo essere valutata sulla sola base di elementi soggettivi, attinenti al valore dell’associazione che la maggior parte dei consumatori può stabilire tra talune qualità dell’alimento di cui trattasi e la sua origine o provenienza.

Detto questo, l’ulteriore passo è verificare se entrambi i requisiti siano stati rispettati nell’adozione dei “decreti origine” nazionali.

Andando a vederli uno per uno, scopriamo che nella parte inziale, relativa ai “visto” e ai “considerato”, troviamo indicato quanto segue.

“Decreto origine latte”:

“CONSIDERATO che i risultati della consultazione pubblica, svolta ai sensi del richiamato articolo 4, comma 4-bis, della legge n. 4 del 2011, introdotto dal decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, confermati dai risultati dell’indagine demoscopica svolta da ISMEA, mostrano l’elevato interesse da parte dei consumatori per l’indicazione del luogo di origine del latte e dei prodotti da esso derivati;

CONSIDERATA la necessità, anche sulla base dei risultati della consultazione pubblica e dell’indagine demoscopica, di fornire ai consumatori un quadro informativo più completo sugli alimenti;

CONSIDERATA, in particolare, l’importanza attribuita all’origine effettiva dei prodotti e quindi, con riferimento al latte e ai prodotti contenenti latte, al paese di mungitura;

RITENUTO pertanto di introdurre, anche al fine di garantire una maggiore sicurezza per i consumatori, una disciplina sperimentale dell’etichettatura dei prodotti preimballati contenenti latte (…)”.

“Decreto origine grano”:

“Considerato che i risultati della consultazione pubblica, svolta ai sensi del decreto-legge  24  giugno  2014,  n.  91,  convertito,  con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, mostrano l’elevato interesse da parte dei consumatori per  l’indicazione  del  luogo  di origine del grano duro usato per la produzione delle paste di  semola di grano duro;

(…)

Considerata la necessità, anche sulla  base  dei  risultati  della consultazione  pubblica,  di  fornire  ai   consumatori un quadro informativo più completo sugli alimenti;

Considerata  l’importanza  attribuita all’origine effettiva dei prodotti e, in particolare all’origine del grano duro usato per la produzione delle paste di semola di grano duro (…)”.

Le stesse considerazioni si trovano, mutatis mutandis, nel “Decreto origine riso” e nel “Decreto origine pomodoro”.

E’ palese, quindi, l’assenza in ciascuno di essi del primo requisito, costituito dalla prova dell’esistenza di «un nesso tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza», il quale, o non è stato in alcun modo considerato oppure è stato valutato sulla sola base del valore dell’associazione che la maggior parte dei consumatori può stabilire tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza.

In entrambi i casi, tale requisito andrà considerato giuridicamente inesistente.

Peraltro, ad eccezione del “decreto origine latte”, per nessuno degli altri è stata validamente intrapresa la procedura di notifica imposta ex lege europea, cosicché nemmeno la sussistenza del secondo requisito può dirsi verificata ed avere passato il vaglio della Commissione.

L’unico “decreto origine”  che pare (con beneficio del dubbio) avere considerato entrambi i requisiti ex art. 39, paragrafo 2, è quello del Mipaaf 6.8.2020, relativo all’indicazione obbligatoria del luogo di provenienza delle carni suine trasformate (affetto, però, da altre problematiche, magari oggetto di una separata, futura disamina).

CONCLUSIONI

La domanda che, a questo punto, ci si deve porre riguarda le conseguenze che la sentenza Lactalis comporterà sulla validità ed efficacia di tali decreti nazionali.

Nella scorsa occasione di analisi, abbiamo potuto analizzare alcuni motivi di loro contrasto con il diritto UE, tali da poterli già qualificare come illegittimi.

Oggi, dopo l’intervento della Corte di Giustizia, dobbiamo considerarli ulteriormente contrastanti con il diritto dell’UE e, quindi, ancora una volta illegittimi, per essere stati adottati in assenza dei presupposti previsti e disciplinati dal legislatore europeo con l’art. 39, paragrafo 2, del regolamento 1169/2011, mancando per essi il primo presupposto per la relativa, valida adozione, costituito dalla più volte citata sussistenza oggettiva e comprovata di un valore aggiunto all’alimento, dato da un nesso tra determinate sue qualità e la sua origine o provenienza.

Ora, è risaputo che, per il principio della preminenza del diritto europeo, se una norma nazionale è contraria a una disposizione europea provvista di effetto diretto, le autorità degli Stati membri sono tenute ad applicare quest’ultima.

In tal caso, la norma nazionale non è né annullata né abrogata, ma la sua forza vincolante viene (o dovrebbe essere) sospesa, con obbligo di disapplicazione da parte del Giudice.

Questo, in via teorica. In pratica, vedremo ciò che accadrà.

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