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LE PRATICHE LEALI D’INFORMAZIONE SUGLI ALIMENTI E LA FIGURA DEL CONSUMATORE MEDIO

avv. Valeria Pullini

La base da cui si parte per la trattazione del presente argomento è data, ancora una volta, dal regolamento n. 1169/2011/UE, relativo alle informazioni sugli alimenti al consumatore, anche noto come regolamento FIC (Food Information to consumers).

Gli obiettivi fondamentali del predetto regolamento sono costituiti, da un lato, dagli interessi generali del mercato interno, che si esplicano nella libera circolazione delle merci e nello svolgimento di pratiche commerciali leali e, dall’altro, dalle regole volte a creare, a beneficio del consumatore,       le condizioni per poter operare scelte adeguate e consapevoli nel proprio interesse non solo economico, ma anche sanitario, ambientale, sociale, etico (2° e 3° “considerando”).

Al 1° “considerando”, il regolamento in parola opera un chiaro riferimento all’art. 169 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), che si preoccupa di “assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori”; mentre, al 9° “considerando”, è specificamente previsto che “il presente regolamento gioverà sia agli interessi del mercato interno, semplificando la normativa, garantendo la certezza giuridica e riducendo gli oneri amministrativi, sia al cittadino, imponendo un’etichettatura dei prodotti alimentari chiara, comprensibile e leggibile”.

Viene, così, sigillato, anche nell’ambito della disciplina trasversale in materia di informazioni sugli alimenti ai consumatori, il principio della libera circolazione di alimenti sicuri e sani (2° “considerando”), così come il principio del leale esercizio del commercio, anche e soprattutto a tutela del consumatore, quale criterio dominante dell’intera disciplina normativa introdotta dal regolamento stesso.

Come poc’anzi detto, Il principio del leale esercizio del commercio nel settore dell’informazione sugli alimenti al consumatore viene suggellato, non istituito, dal regolamento FIC, trattandosi di un principio già fatto proprio in precedenza dalla cd. General Food Law, ossia il regolamento n. 178/2002/CE.

Tale regolamento, nello stabilire i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, si prefigge di consentire ai consumatori scelte consapevoli, in funzione della più ampia tutela della loro salute, anche a mezzo della prevenzione di pratiche commerciali idonee ad indurre in errore.

A tale proposito, l’art. 14, paragrafo 3, del Reg. (CE) n. 178/2002 stabilisce che:

“Per determinare se un alimento sia a rischio occorre prendere in considerazione” oltre alle “condizioni d’uso normali dell’alimento da parte del consumatore”, anche “le informazioni messe a disposizione del consumatore, comprese le informazioni riportate sull’etichetta o altre informazioni generalmente accessibili al consumatore sul modo di evitare specifici effetti nocivi per la salute provocati da un alimento o categoria di alimenti”.

Le pratiche leali d’informazione

L’art. 7 del regolamento n. 1169/2011/UE è la norma dedicata alle pratiche leali d’informazione e così recita:

“1. Le informazioni sugli alimenti non inducono in errore, in particolare:

a) per quanto riguarda le caratteristiche dell’alimento e, in particolare, la natura, l’identità, le proprietà, la composizione, la quantità, la durata di conservazione, il paese d’origine o il luogo di provenienza, il metodo di fabbricazione o di produzione;

b) attribuendo al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede;

c) suggerendo che l’alimento possiede caratteristiche particolari, quando in realtà tutti gli alimenti analoghi possiedono le stesse caratteristiche, in particolare evidenziando in modo esplicito la presenza o l’assenza di determinati ingredienti e/o sostanze nutritive;

d) suggerendo, tramite l’aspetto, la descrizione o le illustrazioni, la presenza di un particolare alimento o di un ingrediente, mentre di fatto un componente naturalmente presente o un ingrediente normalmente utilizzato in tale alimento è stato sostituito con un diverso componente o un diverso ingrediente.

Le informazioni sugli alimenti sono precise, chiare e facilmente comprensibili per il consumatore.

Fatte salve le deroghe previste dalla legislazione dell’Unione in materia di acque minerali naturali e alimenti destinati a un particolare utilizzo nutrizionale, le informazioni sugli alimenti non attribuiscono a tali prodotti la proprietà di prevenire, trattare o guarire una malattia umana, né fanno riferimento a tali proprietà.

Tale regolamento europeo ha stabilito che le suddette regole “si applicano anche:

– alla pubblicità;

– alla presentazione degli alimenti, in particolare forma, aspetto o imballaggio, materiale d’imballaggio utilizzato, modo in cui sono disposti o contesto nel quale sono esposti”.

E’ il concetto d’induzione in errore a costituire il parametro della lealtà o slealtà nelle pratiche d’informazione.

Pertanto, al fine di comprendere il principio del leale esercizio del commercio nelle pratiche d’informazione, risulta utile comprendere ciò che non si deve fare e, così, ciò che assume carattere d’ingannevolezza o di scorrettezza nei confronti del consumatore.

Costituiscono pratiche d’informazione sleali:

– le informazioni non veritiere,

– le forme di comunicazione che, seppure di fatto corrette, siano comunque idonee ad indurre in errore il consumatore riguardo ad una o più caratteristiche del prodotto. Si pensi, a tale proposito, alla condotta considerata al punto c) del suddetto art. 7, laddove il professionista suggerisca che l’alimento possiede caratteristiche particolari, quando in realtà tutti gli alimenti analoghi possiedono caratteristiche identiche, in particolare evidenziando in modo esplicito la presenza o l’assenza di determinati ingredienti e/o sostanze nutritive.

Sul punto, si ricorda la condotta dell’operatore che:

– comunica l’assenza di un allergene in un alimento che naturalmente non lo contiene e per il quale non vi sia alcun rischio di contaminazione crociata in fase produttiva: frutta, verdura, carne, pesce, latte, uova, chicchi di mais in relazione, ad esempio, alla comunicazione “senza glutine” (casi di assenza scontata dell’allergene),

– comunica l’assenza di OGM in prodotti biologici (caso di assenza obbligatoria ex lege e, perciò, comune a tutti i prodotti biologici),

– comunica, in relazione al prodotto, che lo stesso presenta determinate caratteristiche compositive, in realtà comuni a tutti i prodotti del medesimo tipo, in quanto previste ed imposte dalla legge (casi di alimenti soggetti a normativa verticale, che ne definisce la composizione e le modalità di commercializzazione).

Nell’ampia definizione di pratiche commerciali sleali sono contemplate, inoltre, le omissioni ingannevoli, intese come la mancata indicazione di informazioni rilevanti, di cui il consumatore necessita per prendere una decisione consapevole, e induce o è idonea ad indurre il consumatore stesso ad assumere una decisione che non avrebbe altrimenti preso, in relazione a tali medesime caratteristiche.

Le regole relative alle pratiche leali d’informazione si applicano a qualsivoglia informazione sugli alimenti, sia obbligatorie, sia volontarie, apposte, cioè, in via facoltativa dall’operatore, in aggiunta alle informazioni obbligatorie, al fine di evidenziare determinate caratteristiche dell’alimento, altrimenti non emergenti.

Con specifico riferimento alle informazioni volontarie, il regolamento 1169/2011/UE dedica ad esse uno specifico capo: il Capo V, relativo alle “informazioni volontarie sugli alimenti”, ove sono elencati, sub articoli 36 e 37, rispettivamente, i requisiti alle stesse applicabili e le relative modalità di presentazione.

In tali articoli, è stabilito che le informazioni volontarie sugli alimenti, conformemente al dettato normativo di cui all’art. 7:

– non inducono in errore il consumatore;

– non sono ambigue né creano confusione per il consumatore;

– se del caso, sono basate su dati scientifici pertinenti (si pensi, in tale ipotesi, alle indicazioni nutrizionali e sulla salute, quali informazioni di carattere volontario, specificamente disciplinate da appositi provvedimenti normativi europei, le quali, tra le altre condizioni d’uso generali e specifiche, devono anche essere fondate su prove scientifiche generalmente accettate);

– non possono occupare lo spazio disponibile per le informazioni obbligatorie sugli alimenti (ciò, al fine di garantire che gli operatori suddividano in modo equilibrato lo spazio disponibile per le etichette).

Il consumatore medio quale parametro della lealtà delle pratiche d’informazione

Il soggetto destinatario delle informazioni sugli alimenti è il consumatore.

Per consumatore, secondo la definizione fornita dal D. Lgs. 146/2007, di attuazione della direttiva 2005/29/CE, si intende qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali tra imprese e consumatori, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale.

Nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE è stata elaborata la figura di un consumatore tipico virtuale: il “consumatore medio”, inteso quale persona fisica normalmente informata e ragionevolmente attenta ed avveduta, tenuto conto di fattori sociali, culturali e linguistici.

Nel concetto di consumatore medio vanno considerati, altresì, quei soggetti che, per le loro caratteristiche, risultano particolarmente vulnerabili alle pratiche commerciali sleali.

Pertanto, ove una pratica commerciale sia specificatamente diretta ad un determinato gruppo di consumatori, particolarmente vulnerabili a causa dello stato psichico o fisico o relativo all’età, nel quale essi si trovano, l’impatto della pratica commerciale deve essere valutato nell’ottica del membro medio di quel gruppo.

Poiché la nozione di consumatore medio non è statistica, saranno gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali a dover esercitare la loro facoltà di giudizio, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia, per determinare la reazione tipica del consumatore medio nella fattispecie.

Ora, la nozione di consumatore medio:

– costituisce il criterio di valutazione della liceità di tutte le pratiche commerciali delle imprese,

– è il risultato di un processo interpretativo, che si muove per astrazioni,

ma va considerato che i consumatori dei vari Stati membri dell’Unione non sono tutti uguali: divergono tra loro per differenze linguistiche, culturali e sociali, interessi, abitudini e gusti (obiettivi della normativa UE in tema di informazioni al consumatore: garantire un elevato livello di tutela del consumatore, tenendo conto delle differenze di percezione dei consumatori stessi: cfr. CdG, sent. 1.10.2020, Gruppo Lactalis, in causa C-485/18).

La nozione di consumatore medio non può quindi valere in assoluto:

– sia perché esistono consumatori particolarmente vulnerabili a causa dell’età, di una malattia, oppure per mancanza di sufficiente istruzione (in queste situazioni dovrebbe essere assicurata al gruppo dei consumatori più deboli e maggiormente esposti un livello di protezione “superiore” o comunque una tutela articolata in modo differente, rispetto a quella accordata mediamente),

– sia anche perché gli atti di consumo non sono da collocare tutti sullo stesso piano, richiedendo tutele differenziate anche in relazione alla categoria di bene di consumo (l’acquisto di un prodotto alimentare può incidere direttamente sulla salute del consumatore e non può essere assimilato all’acquisto di un qualsiasi altro bene d’uso, quale ad es. un abito o un elettrodomestico) [1].

Nell’ambito del diritto alimentare dovrebbe configurarsi una nozione di consumatore diversa rispetto a quella della disciplina generale.

Per il diritto dell’UE, il consumatore è la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta, ma rimane escluso il soggetto che acquisti o comunque utilizzi un prodotto o servizio nell’ambito delle sue attività commerciali, professionali o d’impresa.

A differenza di questa disciplina, il Reg. (CE) n. 178/2002 non pone alcun esplicito richiamo al consumatore persona fisica come unico consumatore possibile:

dal Reg. (CE) n. 178/2002, si rileva “a contrario, che chi utilizza un prodotto alimentare per un’operazione o un’attività di impresa, che non si configuri come operazione o attività di impresa del settore alimentare, non risulta escluso dalla tutela apprestata in favore del consumatore finale di alimenti. E per altro verso, sembra di dover concludere che può essere consumatore finale di un prodotto alimentare anche un soggetto diverso dalla persona fisica” (F. ALBISINNI, Strumentario di diritto alimentare europeo, Torino, 3^ ed., 2017, p. 130-131)

Una delle prime occasioni in cui la Corte di giustizia ha utilizzato la locuzione “consumatore medio” è relativa ad  una controversia sorta sulla correttezza degli imballaggi di alcune uova da parte di una impresa tedesca [Corte di giustizia, sez. V, 16 luglio 1998, C-210/96: Gut Springenheide GmbH e Rudolf Tusky contro Oberkreisdirektor des Kreises Steinfurt – Amt für Lebensmittelüberwachung (direttore della circoscrizione amministrativa di Steinfurt — Ufficio per il controllo delle derrate alimentari)].

La contestazione riguardava la dicitura: «10 uova fresche – 6 cereali», ritenuta idonea a trarre in inganno una parte notevole di consumatori, perché suggeriva l’idea che l’alimentazione delle galline della ditta tedesca fosse esclusivamente composta dai sei cereali indicati e che quindi le uova presentassero qualità particolari rispetto ad altre in commercio.

La Corte di Giustizia, chiamata a decidere sulla controversia, ha chiarito il principio secondo cui:

per ritenere ammissibile un’informazione destinata a promuovere una vendita e non bollare l’indicazione come in grado di indurre in errore l’acquirente, il giudice nazionale dovrebbe riferirsi all’aspettativa presunta del c.d. “consumatore medio”, cioè di un consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, anche se in presenza di particolari difficoltà nel valutare il carattere ingannevole dell’indicazione.

In tal caso, l’autorità giudiziaria potrebbe comunque fare ricorso:

– alle condizioni previste dal proprio diritto nazionale,

– ad un sondaggio di opinioni o ad una perizia[2].

La Corte di giustizia ha anche affermato che la mera descrizione degli ingredienti di un alimento e la corretta denominazione di vendita non possono essere considerati da soli elementi sufficienti a garantire un consumo consapevole, ed è quindi preferibile per l’OSA (operatore del settore alimentare) utilizzare una più rigorosa descrizione, in riferimento ad un acquirente inesperto che non può essere considerato un soggetto sempre informato e sempre vigile.

Sul punto, un riferimento merita la “Sentenza Teekanne” – Corte di Giustizia UE, IX Sezione, del 4.6.2015, in causa C-195/14 (Bundesverband der Verbraucherzentralen und Verbraucherverbände – Verbraucherzentrale Bundesverband e.V. contro Teekanne GmbH & Co. KG.), già trattata in passato in queste pagine.

L’impresa tedesca Teekanne GmbH & Co. KG, poneva in commercio un infuso ai frutti preimballato, costituito da una scatola di cartone pieghevole, contenente 20 bustine.

Sulla confezione del prodotto erano riportate immagini di lamponi e di fiori di vaniglia, le menzioni «infuso ai frutti con aromi naturali», nonché un sigillo grafico contenente, all’interno di un cerchio dorato, la menzione «solo ingredienti naturali».

A causa di tali elementi, il consumatore si sarebbe aspettato che detto infuso contenesse tra gli ingredienti i fiori di vaniglia e il lampone o, per lo meno, aromi naturali di vaniglia e di lampone.

Ma l’infuso non conteneva alcun componente o aroma naturale di vaniglia o di lampone.

L’elenco degli ingredienti apposto su uno dei lati della confezione riportava le seguenti, corrette informazioni: «Ibisco, mela, foglie di mora dolce, scorza d’arancia, rosa canina, aroma naturale al gusto di vaniglia, scorza di limone, aroma naturale al gusto di lampone, more, fragole, mirtilli, bacche di sambuco».

La questione pregiudiziale che in tale contesto venne presentata alla Corte di Giustizia da parte del Giudice del procedimento a quo, così venne formulata:

«Se sia consentito che l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari nonché la relativa pubblicità suggeriscano, tramite l’aspetto, la descrizione o le illustrazioni, la presenza di un particolare ingrediente, quando invece, in effetti, tale ingrediente non è presente e ciò si evince unicamente dall’elenco degli ingredienti ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, punto 2, della direttiva 2000/13».

Il contesto normativo europeo considerato da tale questione pregiudiziale era la direttiva 2000/13/CE, poiché all’epoca dei fatti, la vicenda insisteva ancora sotto la vigenza e l’operatività di tale direttiva (poi abrogata e sostituita dal regolamento n. 1169/2011/UE).

Il principio di diritto che ne è scaturito con la pronunzia della Corte di Giustizia è, ad ogni modo, assolutamente attuale, vertendo sui principi di corretta e leale informazione al consumatore che si estrinsecano attraverso il divieto di induzione in errore dell’acquirente tramite l’etichettatura (presentazione e pubblicità) dei prodotti alimentari e delle relative modalità di realizzazione.

La Corte ha così statuito:

Gli articoli 2, paragrafo 1, lettera a), sub i), e 3, paragrafo 1, punto 2, della direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità, come modificata dal regolamento (CE) n. 596/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 giugno 2009, devono essere interpretati nel senso che ostano a che l’etichettatura di un prodotto alimentare e le relative modalità di realizzazione possano suggerire, tramite l’aspetto, la descrizione o la rappresentazione grafica di un determinato ingrediente, la presenza di quest’ultimo in tale prodotto, quando invece, in effetti, detto ingrediente è assente, e tale assenza emerge unicamente dall’elenco degli ingredienti riportato sulla confezione di detto prodotto.

La Corte si sofferma su ciò che il consumatore medio è in grado di comprendere attraverso le informazioni offertegli tramite l’etichettatura e le relative modalità di realizzazione.

Sono stati, perciò, considerati come mendaci, erronei ed ambigui determinati fattori di particolare impatto grafico e linguistico, presenti sull’etichetta, che avrebbero indotto il consumatore ad avere un’impressione errata o equivoca sulle caratteristiche compositive del prodotto.

Nel presente caso, la Corte ha fatto un passo ulteriore rispetto alle proprie precedenti statuizioni, affermando:

– da un lato, che la riconduzione della fattispecie concreta a quella o quelle dei propri antecedenti giurisprudenziali può variare, nel risultato, a seconda della specificità del caso di volta in volta trattato;

– dall’altro – e ciò valga come warning nell’attività di elaborazione dell’etichettatura degli alimenti – che il principio di lealtà nelle pratiche commerciali interessa l’intera struttura dell’informazione al consumatore, in quanto, affinché l’etichettatura possa considerarsi adeguata ad informare correttamente il consumatore e, quindi, a garantirgli piena tutela in funzione dell’effettuazione di una scelta libera e consapevole, ogni elemento dell’etichettatura stessa (si parla persino di carattere tipografico, sintassi e punteggiatura) assume rilevanza, non essendo sufficiente che le reali caratteristiche del prodotto siano evincibili solo da alcuni elementi della comunicazione e non da tutti, considerati nel loro insieme e cumulativamente.

[1] Cfr. G. SPOTO, Tutela del consumatore, etichette a semaforo e informazioni “negative”,  in Rivista di diritto alimentare,  anno XII, n. 2, aprile-giugno 2018,  www.rivistadirittoalimentare.it

[2] Tratto da G. SPOTO, op. cit.

 

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