Etichettatura ingannevole: brevi cenni alla “Sentenza Teekanne”

Avv. Valeria Pullini

Il caso qui considerato è di particolare attualità, riguardando un’ipotesi di ingannevolezza dell’etichettatura di un prodotto alimentare.

Riporteremo alcuni cenni alla sentenza Teekanne (sentenza della Corte di Giustizia UE, IX Sezione, del 4.6.2015, in causa C-195/14 – Bundesverband der Verbraucherzentralen und Verbraucherverbände – Verbraucherzentrale Bundesverband e.V. contro Teekanne GmbH & Co. KG).

L’Operatore del Settore Alimentare (OSA) coinvolto, -l’impresa tedesca Teekanne GmbH & Co. KG, poneva in commercio un infuso ai frutti preimballato, costituito da una scatola di cartone pieghevole, contenente 20 bustine, come se ne vedono innumerevoli in commercio, di quella e di altre marche.

La vicenda ha un originario innesco processuale in Germania ad opera dell’Unione federale delle organizzazioni e associazioni di consumatori, la Bundesverband der Verbraucherzentralen und Verbraucherverbände (BVV), la quale proponeva ricorso avverso la Teekanne avanti al Tribunale regionale di Düsseldorf, sostenendo che alcuni elementi dell’etichettatura dell’infuso ai frutti erano tali da indurre in errore il consumatore sulla composizione dell’infuso stesso.

In particolare, sulla confezione del prodotto erano riportate immagini di lamponi e di fiori di vaniglia, le menzioni «infuso ai frutti con aromi naturali» e «infuso ai frutti con aromi naturali – gusto lampone-vaniglia», nonché un sigillo grafico contenente, all’interno di un cerchio dorato, la menzione «solo ingredienti naturali».

A causa di tali elementi, a detta della BVV, il consumatore si sarebbe aspettato che detto infuso contenesse tra gli ingredienti i fiori di vaniglia e il lampone o, per lo meno, aromi naturali di vaniglia e di lampone.

Ma l’infuso non conteneva alcun componente o aroma di vaniglia o di lampone.

Infatti, l’elenco degli ingredienti apposto su uno dei lati della confezione riportava le seguenti, corrette informazioni: «Ibisco, mela, foglie di mora dolce, scorza d’arancia, rosa canina, aroma naturale al gusto di vaniglia, scorza di limone, aroma naturale al gusto di lampone, more, fragole, mirtilli, bacche di sambuco».

Il Tribunale regionale di Düsseldorf accoglieva, quindi, il ricorso della BVV, ravvisando, per quanto sopra, il carattere ingannevole dell’etichettatura considerata.

La Teekanne proponeva, così, appello avanti al Tribunale regionale superiore di Düsseldorf, che annullava la sentenza del precedente Giudice e respingeva, così, l’iniziale ricorso della BVV, considerando, a differenza del primo Giudice, che non vi fosse stato nessun inganno nei confronti del consumatore.

Sulle considerazioni formulate dal Giudice d’appello tedesco ci soffermeremo infra.

Contro tale sentenza, la BVV proponeva ricorso di «Revision» dinanzi alla Corte federale di giustizia ed in tale contesto la Corte federale decideva di sospendere il procedimento e sottoporre alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale:

«Se sia consentito che l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari nonché la relativa pubblicità suggeriscano, tramite l’aspetto, la descrizione o le illustrazioni, la presenza di un particolare ingrediente, quando invece, in effetti, tale ingrediente non è presente e ciò si evince unicamente dall’elenco degli ingredienti ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, punto 2, della direttiva 2000/13».

Come si può notare, il contesto normativo europeo considerato dalla questione pregiudiziale è la direttiva 2000/13/CE, poiché all’epoca dei fatti, la vicenda insisteva ancora sotto la vigenza e l’operatività di tale direttiva.

Il principio di diritto che ne è scaturito con la pronunzia della Corte di Giustizia è, ad ogni modo, assolutamente attuale, vertendo sui principi di corretta e leale informazione al consumatore che si estrinsecano attraverso il divieto di induzione in errore dell’acquirente tramite l’etichettatura (presentazione e pubblicità) dei prodotti alimentari e delle relative modalità di realizzazione.

Divieto precedentemente previsto e disciplinato dall’art. 2 della direttiva del 2000, ed oggi dall’analogo art. 7 del regolamento (UE) n. 1169/2011.

Andiamo subito alla pronunzia della Corte di Giustizia, la quale ha statuito come segue:

Gli articoli 2, paragrafo 1, lettera a), sub i), e 3, paragrafo 1, punto 2, della direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità, come modificata dal regolamento (CE) n. 596/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 giugno 2009, devono essere interpretati nel senso che ostano a che l’etichettatura di un prodotto alimentare e le relative modalità di realizzazione possano suggerire, tramite l’aspetto, la descrizione o la rappresentazione grafica di un determinato ingrediente, la presenza di quest’ultimo in tale prodotto, quando invece, in effetti, detto ingrediente è assente, e tale assenza emerge unicamente dall’elenco degli ingredienti riportato sulla confezione di detto prodotto.

La logica sulla quale sono fondate le motivazioni ad una tale statuizione si appoggia sostanzialmente al concetto di “consumatore medio”.

Più nello specifico, la Corte si sofferma su ciò che il consumatore medio è in grado di comprendere attraverso le informazioni offertegli tramite l’etichettatura e le relative modalità di realizzazione.

Un inciso è d’obbligo.

Per consumatore, secondo la definizione fornita dal D. Lgs. 146/2007, si intende generalmente qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali tra imprese e consumatori, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale.

Il cosiddetto “consumatore medio”, invece, è una figura di elaborazione della giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia dell’UE.

Si parla, a tal proposito, di un consumatore tipico virtuale.

La Corte ha ricordato, anche nelle motivazioni alla sentenza in parola, che il consumatore medio è una persona fisica normalmente informata e ragionevolmente attenta ed avveduta, tenuto conto di fattori sociali, culturali e linguistici[1].

In generale, nel concetto di consumatore medio vanno considerati anche quei soggetti che, per le loro caratteristiche, risultano particolarmente vulnerabili alle pratiche commerciali sleali.

Pertanto, qualora una pratica commerciale sia specificamente diretta ad un determinato gruppo di consumatori, particolarmente vulnerabili a causa dello stato psichico o fisico o relativo all’età nel quale essi si trovano, l’impatto della pratica commerciale deve essere valutato nell’ottica del membro medio di quel gruppo.

La nozione di consumatore medio non è però statistica, ma piuttosto idealtipica: saranno gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali a dover esercitare la loro facoltà di giudizio, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia, per determinare la reazione attesa del consumatore medio nella fattispecie.

In sede nazionale italiana, l’Antitrust, in una delle sue relazioni annuali[2], ha ricordato che, ai fini dell’individuazione del modello di consumatore medio, devono essere presi in considerazione fattori sociali, culturali ed economici, fra i quali particolare rilievo va riservato al “contesto complessivo” in cui il consumatore si trova ad agire.

E richiama il Consiglio di Stato, il quale ha ritenuto che “il modello astratto di consumatore medio è da rapportare al contesto della grande distribuzione al dettaglio, con le caratteristiche comportamentali aggiuntive proprie di quel tipo di contesto, inclusi gli effetti induttivi all’acquisto, anche d’impulso o comunque non preventivato (…)” (sentenza n. 3763 del 22 giugno 2011, Accord Italia Carta Auchan) e che non si può esigere dal consumatore che lo stesso si attivi per supplire sostanzialmente alle omissioni informative, posto che l’onere di “media diligenza” che può gravare su chi si accosta ad una offerta commerciale non può tradursi nell’imposizione di “obblighi eccedentari rispetto ad un comportamento mediamente avveduto” (sentenza n. 4392 del 20 luglio 2011, Mediaworld gli europei che vorrei).

Ora, nel caso specifico, la Corte richiama la propria giurisprudenza[3] nel chiarire che, ai fini della valutazione dell’idoneità di un’etichetta ad indurre in errore l’acquirente, il giudice nazionale[4] deve basarsi essenzialmente sull’aspettativa presunta di un consumatore medio circa l’origine, la provenienza e la qualità dell’alimento, essendo essenziale che il consumatore non sia indotto in errore e portato ad erroneamente considerare che il prodotto abbia caratteristiche diverse da quelle effettive.

Tuttavia, sempre facendo riferimento a proprie statuizioni precedenti[5], la Corte ha riconosciuto che i consumatori che decidono l’acquisto di un prodotto in base alla relativa composizione, leggono prima l’elenco degli ingredienti obbligatoriamente menzionati a norma dell’art. 3 della direttiva 2000/13/CE (ora art. 9 del regolamento UE 1169/2011).

Alla luce di tali considerazioni, , il consumatore medio non avrebbe potuto essere indotto in errore, dal momento che l’effettiva composizione del prodotto era perfettamente disponibile nell’elenco degli ingredienti, formulato in modo corretto.

Ritorniamo un attimo alla vicenda che ha dato luogo alla valutazione d’ingannevolezza dell’etichettatura.

Si è detto che la confezione dell’infuso riportava, da un lato, immagini di lamponi e di fiori di vaniglia, e, dall’altro, le diciture «infuso ai frutti con aromi naturali» e «infuso ai frutti con aromi naturali – gusto lampone-vaniglia», nonché un sigillo grafico contenente la menzione «solo ingredienti naturali».

Ora, dall’elenco degli ingredienti, in effetti, emergono, nell’ordine:

  • la reale presenza di frutti: «ibisco, mela scorza d’arancia, scorza di limone, more, fragole, mirtilli, bacche di sambuco»,
  • la effettiva presenza di aromi naturali: «aroma naturale al gusto di vaniglia, aroma naturale al gusto di lampone»

In relazione a quest’ultimo punto, non pare che, in diversa parte della confezione, fosse dichiarata in maniera ingannevole la presenza di vaniglia e lampone, né che gli aromi naturali realmente presenti fossero ottenuti a partire da lamponi e da fiori di vaniglia.

Anzi, le menzioni, diverse dall’elenco degli ingredienti, presenti sulla confezione specificavano trattarsi di infuso “con aromi naturali – gusto lampone-vaniglia”.

Viene da pensare, pertanto, che il reale elemento di “disturbo” fosse costituito dalle immagini grafiche dei fiori di vaniglia e dei lamponi, le quali, , sotto il profilo della comunicazione tramite l’etichettatura (e la pubblicità), hanno il medesimo valore delle menzioni alfanumeriche.

Sul punto, prima dell’intervento interpretativo della Corte di Giustizia, un altro Giudice, alla luce dei medesimi elementi di valutazione, è sceso a conclusioni diametralmente opposte.

In particolare, nel secondo grado di giudizio tedesco, il Tribunale regionale superiore di Düsseldorf, nell’annullare la sentenza di primo grado che aveva dato torto alla Teekanne, ha preso in considerazione proprio la giurisprudenza della Corte in ordine alle aspettative del consumatore medio ed alla rilevanza della corretta formulazione dell’elenco degli ingredienti.

Il predetto Tribunale ha rilevato che “tale elenco indicherebbe quindi senza ambiguità che gli aromi utilizzati non sono ottenuti a partire da vaniglia e da lampone, ma che ne avrebbero il gusto. Orbene, secondo la giurisprudenza della Corte, l’esistenza di un’informazione esatta e completa risultante dall’elenco degli ingredienti che figura sulla confezione sarebbe sufficiente a escludere il rischio che il consumatore sia tratto in inganno”.

Ora, se la Corte di Giustizia è pervenuta ad un diverso giudizio partendo dai medesimi elementi di valutazione è perché la presenza di alcune immagini, nonché le modalità espressive utilizzate per alcune informazioni presenti sulla confezione, sono apparsi tali da creare nel consumatore l’impressione che il prodotto alimentare contenesse ingredienti in realtà assenti.

Ha, cioè, considerato come mendaci, erronei ed ambigui determinati fattori di particolare impatto grafico e linguistico, presenti sull’etichetta, che avrebbero indotto il consumatore ad avere un’impressione errata o equivoca sulle caratteristiche compositive del prodotto.

Fattori che avrebbero inciso, secondo la Corte, in modo così determinante da rendere insufficiente l’avere riportato un elenco degli ingredienti esatto ed esaustivo.

Nel presente caso, quindi, la Corte ha fatto un passo ulteriore rispetto alle proprie precedenti statuizioni, affermando, da un lato, che la riconduzione della fattispecie concreta a quella o quelle dei propri antecedenti giurisprudenziali può variare, nel risultato, a seconda della specificità del caso di volta in volta trattato.

Dall’altro, che il principio di lealtà nelle pratiche commerciali interessa l’intera struttura dell’informazione al consumatore, in quanto, affinché l’etichettatura possa considerarsi adeguata ad informare correttamente il consumatore e, quindi, a garantirgli piena tutela in funzione dell’effettuazione di una scelta libera e consapevole, ogni elemento dell’etichettatura stessa (si parla persino di carattere tipografico, sintassi e punteggiatura) assume rilevanza, non essendo sufficiente che le reali caratteristiche del prodotto siano evincibili solo da alcuni elementi della comunicazione e non da tutti, considerati nel loro insieme e cumulativamente.

 

[1] La direttiva 2005/29/CE, al considerando 18), offre una nozione di consumatore medio inteso quale “consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l’interpretazione della Corte di Giustizia”.

Definizione normativa mutuata dalla giurisprudenza europea, in particolare, ex multis, dalla sentenza della Corte di Giustizia del 16 luglio 1998 in causa C-210/96.

[2] Fonte www.agcm.it

[3] Sentenza Severi, in causa C-446/07, punto 61

[4] Nelle motivazioni alla presente sentenza, la Corte di Giustizia rammenta che, in linea di principio, nella ripartizione delle competenze tra i giudici nazionali e giudici dell’Unione, non spetta alla Corte statuire sulla questione se l’etichettatura di taluni prodotti sia tale da indurre in errore l’acquirente o il consumatore o decidere la questione se una certa denominazione di vendita sia eventualmente ingannevole. Tale compito spetta al giudice nazionale. Tuttavia la Corte, nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, può, ove necessario, fornire precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua decisione

[5] Sentenze Commissione/Germania, in causa C-51/94, punto 34, e Darbo, in causa C-465/98, punto 22.

 

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