La Commissione Europea contro la concorrenza sleale

Avv. Giovanna Soravia

Il mercato unico consente e promuove la libera circolazione delle merci, che garantisce maggiori opportunità di crescita e di espansione alle imprese (che possono vendere i propri beni in tutti i Paesi, con caratteristiche anche diverse a seconda delle strategie commerciali connesse ai destinatari potenziali acquirenti) e nello stesso tempo amplia le possibilità di scelta e di determinazione all’acquisto del consumatore (che possono reperire il medesimo prodotto, pur se non identico, in diversi Paesi).

E’ pertanto possibile che il consumatore medio acquisti la medesima bevanda, registrata e venduta sotto lo stesso famoso marchio, e distribuita con la medesima confezione e immagine, tanto in Francia quanto in Italia. Il consumatore francese potrebbe percepire, tra la bottiglia francese che acquista solitamente a casa e quella italiana acquistata durante la sua vacanza alcune differenze nelle rispettive caratteristiche o composizione. La bevanda della stessa marca (stesso marchio, stessa confezione) ma acquistata in Paesi diversi, può risultare diversa agli occhi e al gusto del consumatore medio, di fatto determinando una disparità tra consumatori dell’uno o dell’altro Paese, soprattutto se dovesse risultare che il consumatore francese non avrebbe comperato quella bibita in Italia se avesse saputo che aveva qualità differenti rispetto a quella che lui abitualmente compera nel proprio Paese.

Fino a quando le scelte commerciali dell’impresa, l’adattamento alle diverse richieste del mercato zona per zona, le particolarità nella fabbricazione a seconda del clima e delle diversità del luogo possono prevalere sulla legittima aspettativa del consumatore medio nei confronti di un prodotto di marca noto per le sue qualità e caratteristiche di composizione? Fino a quando tali differenze di qualità[1] sono legittime e non inducono in errore il consumatore?

Quando, invece, violano la normativa europea e costituiscono ipotesi di pratiche commerciali sleali?

Con Comunicazione del 29.09.2017[2], nell’ambito di un esteso percorso di discussione e condivisione di tali problematiche riguardanti, nello specifico, il settore alimentare, la Commissione europea ha pubblicato alcune proprie indicazioni e piani di azione in aiuto delle competenti Autorità degli Stati membri per una corretta e comune applicazione delle norme, definizione di criteri per l’individuazione di casi di differenze di qualità illegittime e ingiustificate, e conseguenti strategie contro le pratiche commerciali sleali ai danni del consumatore.

Innanzitutto, la Commissione delinea il contesto normativo vigente e richiama i riferimenti normativi specifici applicabili alle problematiche rilevate, evidenziando dunque la portata e le finalità del Reg. CE n.178/2002 sui principi generali della sicurezza alimentare, il Reg. UE n.1169/2011 sulle informazioni ai consumatori di alimenti, e con portata extrasettoriale la Dir. 2005/29/CE[3] sulle pratiche commerciali sleali, che di fatto forniscono gli strumenti operativi per l’individuazione e definizione delle fattispecie.

In relazione al Reg. UE n.1169/2011, ad esempio richiama il principio generale sancito dall’art.7 sulle pratiche leali d’informazione secondo il quale le informazioni sugli alimenti non devono indurre in errore il consumatore[4].

Nell’approfondire la Dir. 2005/29/CE, la Commissione ne conferma innanzitutto la piena applicabilità per questioni e profili di pratiche commerciali sleali non direttamente disciplinati da norme specifiche di settore, che prevalgono in virtù del principio di specialità ribadito dalla Direttiva stessa secondo cui “In caso di contrasto tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e applicano a tali aspetti specifici” (art.3, par.4).

L’art.5, par.1 dice espressamente che Le pratiche commerciali sleali sono vietate, laddove per pratiche commerciali (tra imprese e consumatori) si deve intendere “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di u prodotto ai consumatori” (art.2, lett.d). Quando una pratica commerciale è sleale? Quando “a) è contraria alle norme di diligenza professionale e b) falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”; certamente “sono sleali le pratiche commerciali ingannevoli di cui agli artt.6 e 7 o aggressive di cui agli artt.8 e 9” (art.5, par.2 e par.4).

Sulla base di questo quadro normativo, molto brevemente evidenziato, la Commissione ritiene necessario rafforzare alcuni punti ulteriori per capire se effettivamente una certa pratica commerciale sia da considerare sleale e per adottare le misure opportune a tutela del consumatore, prospettando 4 Azioni di intervento e strategia:

  • finanziamento e promozione di progetti nazionali di studio e ricerca per migliorare il rispetto della normativa di settore;
  • sviluppo di una metodologia di prova comune e armonizzata tra gli Stati, da parte del Centro comune di ricerca (JRC);
  • collaborazione e dialogo tra la Commissione, produttori e venditori al dettaglio, attraverso forum, riunioni e discussioni mirate;
  • orientamenti per le Autorità nazionali, con indicazioni operative per attuare la normativa e rafforzare i controlli e il contrasto alle pratiche sleali.

Ad esempio, secondo gli orientamenti dati dalla Commissione, per poter valutare se una pratica commerciale sia in contrasto con la Direttiva, e quindi se un certo prodotto commercializzato in più Paesi con lo stesso marchio e confezione ma con caratteristiche differenti vada a ledere gli interessi del consumatore, occorre procedere con una valutazione caso con cui dimostrare che:

  • i consumatori, che hanno in mente un “prodotto di riferimento[5]”, riponevano alcune aspettative nel prodotto che hanno acquistato, che invece di discosta in maniera significativa;
  • le informazioni sul prodotto fornite dal professionista ai consumatori non sono adeguate per consentire di comprendere che vi potrebbero essere delle differenze rispetto alle loro aspettative;
  • le informazioni inadeguate o insufficienti sono tali da incidere in misura determinante sul comportamento economico del consumatore, inducendolo ad acquistare un prodotto che altrimenti non avrebbe acquistato.

Infatti, generalmente la decisione dei consumatori di acquistare un prodotto di marca è determinata in gran parte dalla percezione di ciò che quel marchio rappresenta per loro, rafforzata dai gusti e dalle esperienze personali ed anche dalla pubblicità.

Al di là delle differenze soggettive che ciascun consumatore potrebbe cogliere tra prodotti venduti in Paesi diversi, la Commissione delinea alcuni elementi oggettivi in presenza dei quali si può riscontrare una differenza significativa delle caratteristiche principali di un prodotto. Ciò accade quando, ad esempio, un ingrediente essenziale, una serie di ingredienti essenziali, o una sua percentuale differiscono in maniera sostanziale dal prodotto di riferimento, e quando la differenza potenzialmente in grado di incidere sul comportamento economico del consumatore, che avrebbe assunto una diversa scelta d’acquisto se avesse saputo tale differenza.

Il contrasto alle pratiche commerciali sleali nel settore alimentare, nei casi di comprovata differenza di qualità nei prodotti di marca nel mercato unico, a danni dei consumatori, è argomento particolarmente sentito dalla Commissione europea che, come abbiamo visto, ha pubblicato specifici orientamenti sul punto e inoltre si sta occupando di definire una metodologia scientifica solida e condivisa per l’acquisizione e gestione delle prove comparative sui prodotti, sta finanziando attività di sviluppo per rafforzare il rispetto della normativa e sta promuovendo occasioni di dialogo con i soggetti della filiera interessati, produttori, consumatori, autorità e controllori.

[1] Per differenze di qualità di alcuni prodotti si intende, appunto, il caso in cui prodotti commercializzati nell’ambito del mercato unico sotto lo stesso marchio o denominazione commerciale presentano, negli Stati membri, differenze in termini di composizione o qualità.

[2] Trattasi della Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme in materia di tutela degli alimenti e dei consumatori alle questioni di differenze di qualità dei prodotti – il caso specifico dei prodotti alimentari, (2017/C 327/01).

[3] Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.05.2005 relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/7/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento CE n.2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio.

[4] La norma citata, par.1, stabilisce che Le informazioni sugli alimenti non inducono in errore, in particolare: a) per quanto riguarda le caratteristiche dell’alimento e, in particolare, la natura, l’identità, le proprietà, la composizione, la quantità, la durata di conservazione, il paese d’origine o il luogo di provenienza, il metodo di fabbricazione o di produzione; b) attribuendo al prodotto alimentare effetti o proprietà che non possiede; c) suggerendo che l’alimento possiede caratteristiche particolari, quando in realtà tutti gli alimenti analoghi possiedono le stesse caratteristiche, in particolare evidenziando in modo esplicito la presenza o l’assenza di determinati ingredienti e/o sostanze nutritive; d) suggerendo, tramite l’aspetto, la descrizione o le illustrazioni, la presenza di un particolare alimento o di un ingrediente, mentre di fatto un componente naturalmente presente o un ingrediente normalmente utilizzato in tale alimento è stato sostituito con un diverso componente o un diverso ingrediente”.

[5] Secondo i criteri di individuazione proposti dalla Commissione, il prodotto di riferimento, che funge da termine di paragone tra quanto ci si aspetta e quanto concretamente si ottiene dal prodotto acquistato, è un prodotto venduto in diversi Stati membri con lo stesso marchio e lo stesso imballaggio, è venduto nella maggior parte degli Stati membri con una determinata composizione, la percezione delle principali caratteristiche da parte dei consumatori corrisponde alla composizione del prodotto come pubblicizzata nella maggior parte degli Stati membri.

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