La “sentenza TofuTown” statuisce sull’utilizzo del termine “latte” nei prodotti vegetali

Avv. Valeria Pullini

Dopo il nostro precedente articolo, dedicato all’importante sentenza Teekanne, riteniamo utile soffermarci sulla sentenza della Corte di Giustizia UE, VII Sezione, del 14.6.2017, in causa C-422/16 – Verband Sozialer Wettbewerb contro TofuTown.com GmbH, ovvero la cosiddetta “Sentenza TofuTown”.

La diversità della presente pronuncia rispetto a quella esaminata in precedenza risiede, oltre ovviamente che nel diverso caso trattato, anche nel contesto normativo di riferimento.

Nel presente caso, infatti, non si è presa in considerazione la normativa orizzontale europea in tema di informazioni sugli alimenti ai consumatori, bensì norme più specifiche, attinenti alle designazioni e denominazioni di alimenti appartenenti ad un determinato settore, quello del latte e dei prodotti lattiero-caseari, per l’appunto.

Ma la diversità del contesto normativo di riferimento non inficia  (o non dovrebbe inficiare) il principio di tutela del consumatore a mezzo della lealtà delle pratiche commerciali in tema di comunicazione.

Ripercorriamo, brevemente, i punti più salienti che hanno portato alla presente statuizione.

La TofuTown è un’impresa che produce e distribuisce alimenti per vegetariani e vegani e, nel caso di cui si tratta, essa ha pubblicizzato e distribuito prodotti puramente vegetali utilizzando per essi denominazioni quale “burro”, “crema”, “formaggio” e simili, corredate, però, da espressioni contenenti un chiaro rimando all’origine vegetale dei prodotti stessi (ad esempio: “burro di tofu”, “formaggio vegetale”, “rice spray cream”, ecc.).

Contro di essa veniva proposta, avanti al Tribunale regionale di Treviri/Trier, un’azione inibitoria da parte di un’associazione tedesca avente l’obiettivo di contrastare la concorrenza sleale (la Verband Sozialer Wettbewerb – VSW).

Anche in tal caso, il processo in sede nazionale veniva sospeso dal Giudice ai fini di un rinvio pregiudiziale di tre questioni alla Corte di Giustizia, così riassumibili:

se l’articolo 78, paragrafo 2, e l’allegato VII, parte III, del regolamento n.1308/2013 debbano essere interpretati nel senso che ostano a che la denominazione «latte» e le denominazioni che tale regolamento riserva unicamente ai prodotti lattiero-caseari siano utilizzate per designare, all’atto della commercializzazione o nella pubblicità, un prodotto puramente vegetale, e ciò anche nel caso in cui tali denominazioni siano completate da indicazioni esplicative o descrittive che indicano l’origine vegetale del prodotto in questione”.

E la Corte ha così statuito:

L’articolo 78, paragrafo 2, e l’allegato VII, parte III, del regolamento n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio, devono essere interpretati nel senso che ostano a che la denominazione «latte» e le denominazioni che tale regolamento riserva unicamente ai prodotti lattiero-caseari siano utilizzate per designare, all’atto della commercializzazione o nella pubblicità, un prodotto puramente vegetale, e ciò anche nel caso in cui tali denominazioni siano completate da indicazioni esplicative o descrittive che indicano l’origine vegetale del prodotto in questione, salvo il caso in cui tale prodotto sia menzionato all’allegato I della decisione 2010/791/UE della Commissione, del 20 dicembre 2010, che fissa l’elenco dei prodotti di cui all’allegato XII, punto III.1, secondo comma, del regolamento n. 1234/2007 del Consiglio.

 

Quindi, le denominazioni elencate all’allegato VII, parte III, del regolamento OCM, quali «latte», «siero di latte», «crema di latte o panna», «burro», «latticello», «formaggio» e «iogurt», menzionate dal giudice del rinvio, non possono, in linea di principio, essere legittimamente impiegate per designare un prodotto puramente vegetale.

Peraltro, se, secondo l’allegato VII, parte III, punto 5, primo comma, del predetto regolamento, tali denominazioni non possono essere utilizzate per prodotti diversi da quelli ivi definiti, il secondo comma del medesimo punto 5 prevede che tale regola «non si applica tuttavia alla designazione di prodotti la cui natura esatta è chiara per uso tradizionale e/o qualora le denominazioni siano chiaramente utilizzate per descrivere una qualità caratteristica del prodotto».

Orbene, ciò non significa che di tale eccezione ci si possa avvalere tutte le volte, come nel caso specifico, in cui si corredi la denominazione spettante al latte o a prodotti lattiero-caseari con indicazioni chiarificatrici o descrittive della diversa natura del prodotto (ad es., dell’origine puramente vegetale dell’alimento).

Al contrario, l’elenco dei prodotti ai quali si applica quest’ultima disposizione è stato fissato dall’allegato I della decisione 2010/791, in applicazione dell’articolo 121, lettera b), sub i), del regolamento n.1234/2007, divenuto, in sostanza, l’articolo 91, primo comma, lettera a), del regolamento n.1308/2013.

 

Soltanto ai prodotti elencati in tale allegato si applica, pertanto, l’eccezione prevista dal summenzionato secondo comma. Per l’Italia, ad esempio, valgono esclusivamente le seguenti eccezioni:

  • Latte di mandorla,
  • Burro di cacao,
  • Latte di cocco,
  • Fagiolini al burro.

A tal proposito, occorre sottolineare che risulta, in sostanza, dal considerando 3 della decisione 2010/791 che, nell’elenco fissato da tale decisione, figurano i prodotti che sono stati identificati dagli Stati membri come rispondenti, nel loro rispettivo territorio, ai criteri stabiliti dall’allegato VII, parte III, punto 5, secondo comma, del regolamento OCM e che le denominazioni dei prodotti in questione sono riportate come vengono tradizionalmente usate nelle varie lingue dell’UE.

Ciò significa, come chiarisce la Corte, che il fatto che, ad esempio, la denominazione «crème de riz», in lingua francese, sia stata riconosciuta come corrispondente a detti criteri non implica che anche la denominazione «rice cream» vi corrisponda.

In altre parole, se una denominazione rientra nell’ambito delle eccezioni previste per uno Stato membro, poiché nel relativo territorio corrisponde ad un prodotto tradizionalmente ivi usato e così conosciuto, ciò non significa che tale denominazione possa essere utilizzata in altro Stato membro, se per tale diverso Stato non sia prevista analoga eccezione nella rispettiva lingua.

Le eccezioni previste dall’Allegato I della decisione 2010/791 valgono esclusivamente per lo Stato membro per il quale sono previste, senza possibilità di estensione ad altri territori dell’UE, a meno che non siano specificamente ed egualmente previste anche per questi.

Inoltre, l’eccezione di cui all’allegato VII, parte III, punto 5, secondo comma, del regolamento n. 1308/2013 – ossia, il fatto che le denominazioni riservate ai soli prodotti lattiero-caseari possano applicarsi per la designazione di prodotti diversi la cui natura esatta è chiara per uso tradizionale e/o qualora le denominazioni siano chiaramente utilizzate per descrivere una qualità caratteristica del prodotto – non è un’eccezione che possa applicarsi genericamente a tutti gli alimenti purché vi siano informazioni descrittive ed esplicative dell’esatta natura dell’alimento, bensì e solo per i prodotti di cui alle eccezioni specificamente previste per ciascuno Stato membro dal ridetto Allegato I della Decisione 2010/791.

Ora, la base dalla quale si devono prendere le mosse per giustificare una tale statuizione è data dalla presenza di una disciplina normativa specifica, dedicata propriamente alla designazione degli alimenti in questione, che per ciascuno di essi prevede una denominazione legale, ai sensi dell’art. 17 del regolamento (UE) n. 1169/2011, a cui corrisponde una specifica definizione.

In ciò si giustifica la limitazione evidenziata, in mancanza della quale “tali denominazioni non permetterebbero più, segnatamente, di identificare in maniera certa i prodotti che presentano le caratteristiche specifiche legate alla composizione naturale del latte animale, circostanza incompatibile con la protezione dei consumatori, a causa del rischio di confusione che ne deriverebbe”.[1]

Ed ecco, a parere di chi scrive, il punto più delicato dell’intera questione.

Per chiarimento della stessa Corte, gli obiettivi perseguiti dal regolamento OCM, anche a mezzo delle limitazioni sopra indicate, è, tra gli altri, la protezione del consumatore, al quale deve essere presentata un’informazione chiara, precisa, facilmente comprensibile e tale da non indurlo in alcun modo in confusione.

Obiettivo che, come noto, costituisce il fondamento dell’intera legislazione alimentare in tema di informazioni al consumatore, sia verticale che trasversale, e che è riconducibile al principio di lealtà delle pratiche d’informazione di cui all’art. 7 del regolamento (UE) n. 1169/2011.

Da ciò dovrebbe discendere che qualsivoglia alimento, che nella “tradizione” alimentare delle nostre latitudini viene ricondotto ad un prodotto a base di carne/pesce (quindi, di origine animale) – ancorché non soggetto ad una disciplina normativa che ne individui una denominazione specifica ed una altrettanto specifica definizione – non potrebbe vantare una denominazione descrittiva, quale ad es. prosciutto o bresaola o hamburger, se utilizzata per identificare un alimento puramente vegetale, quale sostituto del corrispondente prodotto di origine animale.

E tale censura dovrebbe sussistere anche, come nel caso qui esaminato, se la denominazione dell’alimento venisse affiancata da diciture esplicative che ne chiarissero tale origine vegetale (per rimanere negli esempi fatti sopra, si pensi al “prosciutto vegano”, alla “bresaola di verdure” all’”hamburger di soia”, ecc.).

Questo dovrebbe essere il giusto corollario ed il corretto effetto “collaterale” della sentenza in parola, nonostante essa avesse ad oggetto altra e diversa categoria di alimenti, per il semplice fatto che anche in tal caso il rischio per il consumatore sarebbe quello di essere indotto in errore.

Invece, la Corte pare essere di diverso parere, non ritenendo che le limitazioni qui considerate, previste per i sostitutivi vegetariani/vegani del latte e dei prodotti lattiero-caseari, siano valevoli anche per la designazione e/o denominazione degli alimenti sostitutivi dei prodotti a base di carne/pesce.

Nell’esprimere tale discordante parere, la Corte fonda le proprie osservazioni non tanto sul principio di lealtà e correttezza delle pratiche d’informazione, quanto sui principi di proporzionalità e parità di trattamento che, a suo avviso, nell’ambito di tale raffronto non risultano essere violati[2].

 

[1] Si veda il punto 44 della sentenza in parola.

[2] Ai punti 45 e da 49 a 51 della sentenza in esame, la Corte di Giustizia si esprime nei seguenti termini: “Per quanto riguarda il principio di proporzionalità, esso richiede che gli atti delle istituzioni dell’Unione siano idonei a realizzare i legittimi obiettivi perseguiti dalla normativa di cui trattasi e non superino i limiti di quanto è necessario per il loro conseguimento, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva e che gli inconvenienti causati non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti (…)  Quanto al principio della parità di trattamento, esso esige che situazioni comparabili non siano trattate in modo differente e che situazioni differenti non siano trattate in modo identico, a meno che un tale trattamento non sia oggettivamente giustificato (…).

Nel caso di specie, il fatto che i produttori di alimenti vegetariani o vegani sostitutivi della carne o del pesce non siano, secondo la TofuTown, soggetti, per quanto riguarda l’utilizzazione di denominazioni di vendita, a restrizioni paragonabili a quelle alle quali sono soggetti i produttori di alimenti vegetariani o vegani sostitutivi del latte o dei prodotti lattiero-caseari in forza dell’allegato VII, parte III, del regolamento n. 1308/2013 non può essere considerato contrario al principio della parità di trattamento.

Ogni settore dell’organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli istituito da detto regolamento presenta, infatti, peculiarità ad esso proprie. Se ne desume che il confronto tra gli strumenti tecnici usati per disciplinare i vari settori di mercato non può costituire una base valida per dimostrare la fondatezza della censura di discriminazione fra prodotti dissimili, sottoposti a norme diverse”.

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