Le informazioni volontarie cd. “eco-friendly”. Una breve panoramica sociale e normativa

avv. Valeria Pullini

 

Diversi studi sui consumatori hanno riscontrato una sempre maggiore preferenza verso prodotti con etichette ambientali e marchi sostenibili e ciò è confermato dalla maggiore crescita di prodotti con dichiarazioni sostenibili rispetto alle alternative tradizionali in diverse categorie (White et al., 2019).

Questo è ciò che si legge nelle “Linee Guida per i “green claim” – Life EFFIGE – Action B5’s Deliverable (2021)”; documento elaborato dall’Istituto di Management della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, ove è altresì evidenziato come, da diversi anni, prodotti caratterizzati da informazioni cd. “green”, ossia – in generale – a ridotto impatto ambientale, costituiscano ormai una realtà significativa nell’ambito dell’attività d’impresa a livello sia nazionale che estero.

Sempre ivi si legge che il cd. consumo verde è riconducibile alla sempre più diffusa tendenza sociale a scegliere beni e servizi rispettosi dell’ambiente, influenzata da una serie di aspetti diversi, quali le attitudini e i valori dei consumatori, le norme sociali, le abitudini, l’informazione e la fiducia (cfr. Testa et al., 2020).

Prodotti qualificati come sostenibili sotto il profilo ambientale stanno interessando i più vari settori del mercato, dalla detergenza alla cosmetica sino al settore alimentare, dove le vendite di prodotti con etichette “green” sono oggetto di un’ascesa esponenziale, in particolare avuto riguardo ad informazioni sulle prestazioni ambientali, sui processi produttivi e sulle materie prime impiegate.

I “green claims” o claims etico-ambientali: cosa sono e come nascono

I green claims o claims etico-ambientali, da non confondere con l’etichettatura ambientale obbligatoria di recente introduzione, sono indicazioni di carattere volontario dirette ad affermare, suggerire o lasciare intendere – o anche solo evocare – il minore o ridotto impatto ambientale del prodotto o del servizio offerto.

Essi trovano il proprio naturale fondamento nel sempre più crescente interesse dei consumatori verso le tematiche ambientali; attitudine di cui si sta facendo portavoce l’Ue stessa, intesa come complesso politico-istituzionale, la quale ha recentemente confermato di seguire tale tendenza adottando, nell’ambito delle politiche generali, l’Agenda della Commissione europea 2020 (c.d. New Deal for consumers).

Tale agenda reca un programma di cinque anni volto al conseguimento di obiettivi e misure che si innestano in cinque settori di intervento, tra i quali spicca su tutti la cd. transizione verde, caratterizzata da un’azione quanto più possibile globale intesa a garantire l’accesso generalizzato a prodotti e stili di vita sostenibili.

Ora, come correttamente osservato dall’Istituto di Management sopra citato, “per trasformare l’interesse verso i prodotti green in un effettivo comportamento d’acquisto, ruolo cruciale è svolto dalle informazioni. Serve quindi mettere a disposizione del consumatore, informazioni corrette e comprensibili che possano guidarlo a compiere scelte ambientalmente vantaggiose e coerenti con le proprie attitudini e intenzioni. La necessità di comunicare al pubblico informazioni chiare, trasparenti e facilmente comprensibili ha portato alla nascita di diverse etichette ambientali, dette anche eco-etichette o eco-label”.

Le informazioni “eco-friendly”: presupposti giuridici e contesto normativo

Quando parliamo di etichette e, in genere, di pubblicità di carattere etico-ambientale dobbiamo necessariamente contestualizzare tale fenomeno nell’ambito dell’ordinamento giuridico dell’Ue e, quindi, dei presupposti e delle regole che governano il più generale ambito della tutela del consumatore, qui considerato con particolare riferimento alle informazioni allo stesso indirizzate.

Le politiche dell’UE in materia di tutela dei consumatori sono fondate, tra gli altri, sugli artt. 12, 114 e 169 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), nonché sull’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

L’art. 12 riconosce un carattere trasversale alla tutela dei consumatori, stabilendo che nella definizione e nell’attuazione di altre politiche o attività dell’Unione sono prese in considerazione le esigenze inerenti alla protezione dei consumatori.

L’art. 114, in materia di armonizzazione degli ordinamenti nazionali nel settore del mercato interno, pone l’accento sull’obiettivo di assicurare, tra l’altro, la protezione dei consumatori tenendo conto dei nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici.

L’art. 169 del TFUE prevede che al fine di promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare loro un livello elevato di protezione, l’Unione debba contribuire a tutelare la salute, la sicurezza e gli interessi economici dei consumatori, nonché a promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi.

Tale funzione, esercitata mediante la procedura legislativa ordinaria dell’UE, si traduce in:

  • misure adottate nel quadro della realizzazione del mercato interno;
  • misure di sostegno, di integrazione e di controllo della politica svolta dagli Stati membri. La medesima disposizione consente ai singoli Stati membri di mantenere o di introdurre misure di protezione più rigorose (purché siano compatibili con i Trattati, e siano state notificate alla Commissione).

Infine, l’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea prevede che nelle politiche dell’Unione sia garantito un livello elevato di protezione dei consumatori[1].

In particolare, quanto al diritto all’informazione a tutela del consumatore e al contrapposto ambito delle pratiche commerciali sleali, doveroso in questo contesto è il riferimento alla Direttiva 2005/29/CE e succ. mod., la quale definisce sleali le pratiche commerciali contrarie ai requisiti della diligenza professionale, in quanto idonee a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio.

In quest’ambito, sono qualificate pratiche commerciali sleali quelle che inducono il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe assunto. Parliamo di pratiche commerciali ingannevoli (attive o omissive) e pratiche commerciali aggressive.

L’allegato I della direttiva riporta, altresì, una lista nera di pratiche commerciali ritenute in ogni caso sleali.

Inoltre, nel settore alimentare è altresì d’obbligo un riferimento al Regolamento (UE) n. 1169/2011 e, in particolare, all’art. 7, dedicato alle pratiche leali d’informazione, il quale fa divieto di induzione in errore del consumatore sulle caratteristiche degli alimenti.

E’ corretto, inoltre, ricordare anche la Direttiva 2006/114/CE, volta a tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole posta in essere dalle altre imprese, ritenuta assimilabile ad una pratica commerciale sleale.

E’ in questo generale contesto che si inseriscono le indicazioni cd. “eco-friendly”, per la cui disciplina è attualmente in preparazione una direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio.

 

Legislazione Ue in preparazione

Parliamo della proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica le direttive 2005/29/CE e 2011/83/UE per quanto riguarda la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell’informazione [COM(2022) 143 final – 2022/0092(COD)].

Tale direttiva vorrebbe rafforzare i diritti dei consumatori, da un lato, modificando le predette due direttive che ne tutelano gli interessi a livello Ue, al fine di migliorare la qualità e la coerenza dell’applicazione delle norme unionali in materia di tutela dei consumatori; dall’altro, contribuendo ad un’economia dell’UE circolare, pulita e verde, volta a consentire ai consumatori di prendere decisioni di acquisto consapevoli e, quindi, contribuire ad una maggiore sostenibilità dei consumi.

Infatti, come si legge nel testo della direttiva in fase di preparazione, le attuali norme generali in materia di pratiche ingannevoli previste nella direttiva sulle pratiche commerciali sleali possono essere applicate, con valutazione caso per caso, alle pratiche di greenwashing (meglio esplicate infra) che incidono negativamente sui consumatori. Non vigono, tuttavia, norme specifiche, nella direttiva o nel suo allegato I (lista nera), che definiscano tali pratiche come sleali in ogni circostanza.

Tale proposta si innesta in una delle iniziative previste nella nuova agenda dei consumatori e nel piano d’azione per l’economia circolare e dà seguito al Green Deal europeo.

La possibilità, offerta ai consumatori, di scegliere soluzioni meno onerose si consegue attraverso una maggiore partecipazione dei consumatori stessi all’economia circolare, in particolare tutelandoli maggiormente dalle pratiche commerciali sleali che impediscono acquisti sostenibili, quali, per quanto qui interessa:

  • le suddette pratiche di greenwashing;
  • l’uso di marchi di sostenibilità e strumenti di informazione inattendibili e non trasparenti.

La proposta mira, tra l’altro, a che:

  • sia vietata l’esibizione di un marchio di sostenibilità non basato su un sistema di certificazione o non stabilito dalle autorità pubbliche;
  • sia vietato l’uso di dichiarazioni ambientali generiche nelle attività di marketing rivolte ai consumatori, laddove l’eccellenza delle prestazioni ambientali del prodotto o del professionista non sia dimostrabile, a seconda della dichiarazione, in conformità del Regolamento (CE) n. 66/2010 (Ecolabel UE), di un sistema di certificazione ecologica ufficialmente riconosciuto negli Stati membri o di altra normativa dell’Unione applicabile;
  • sia vietata la presentazione di una dichiarazione ambientale concernente il prodotto nel suo complesso quando in realtà riguarda soltanto un determinato aspetto.

In relazione alla sopra – brevemente – esposta proposta di direttiva, il CESE – Comitato economico e sociale europeo (Organo consultivo dell’Unione europea), ha espresso un proprio parere[2], invitando la Commissione a promuovere una forte azione di sensibilizzazione dei consumatori in merito alle tematiche del consumo responsabile.

In particolare il CESE, nel ritenere correttamente segnalato dalla Commissione il fatto che le pratiche di greenwashing costituiscano uno dei principali ostacoli all’informazione dei consumatori per la transizione verde, ha accolto con favore, da un lato, la rappresentata necessità di sanzionare le dichiarazioni ambientali generiche che non si possono definire in maniera oggettiva né dimostrare; dall’altro, la previsione del divieto di esibire marchi di sostenibilità che non siano soggetti a un sistema di certificazione formale.

A tale proposito, incoraggiare un consumo responsabile significa anche rafforzare le etichette che certificano misure ambientali serie. In tal senso, se la pubblicità deve evitare di ricorrere a dichiarazioni ambientali relative a un prodotto nel suo complesso quando invece ne riguardano solo taluni elementi, essa deve anche vietare qualsiasi dichiarazione ingiustificata, come quelle fin troppo frequenti relative alla neutralità in termini di emissioni di carbonio, nonché qualsiasi evocazione o rappresentazione di comportamenti contrari alla protezione dell’ambiente e alla conservazione delle risorse naturali. Inoltre, nella pubblicità deve essere vietata qualsiasi rappresentazione che possa normalizzare o promuovere pratiche o idee contrarie agli obiettivi di sviluppo sostenibile.

Ora, il fatto che una legislazione ad hoc sia ancora in fase di preparazione a livello Ue non significa che la specifica materia dei “green claims” sia priva di disciplina.

Anzi, il contenuto della futura direttiva europea appare mutuato, in tale ambito, da un pacchetto normativo di carattere tecnico, emanato a livello internazionale, che da tempo è in grado di regolamentare l’efficacia ambientale di determinati prodotti e di vietare l’uso fuorviante di dichiarazioni, loghi o etichette che si riferiscano a questo settore in particolare.

Le norme tecniche UNI EN ISO

Il principale riferimento che definisce i principi fondamentali da rispettare per le dichiarazioni ambientali è la norma UNI EN ISO 14020:2002, “Etichette e dichiarazioni ambientali – Principi generali”.

Secondo la classificazione e descrizione delle etichette e delle dichiarazioni  ambientali della ISO 14020, si possono distinguere tre tipologie di etichettature/dichiarazioni ecologiche:

1) Etichette ambientali di tipo I: il relativo presupposto è l’adesione ad un sistema di etichettatura ambientale strutturato, che prevede il rilascio di una certificazione e consente l’utilizzo di loghi predefiniti (UNI EN ISO 14024:2018 “Etichette e dichiarazioni ambientali”). Sono assegnate da organismi terzi, pubblici o privati, indipendenti dal produttore (es. il marchio Ecolabel); sono sviluppate su basi scientifiche e prevedono il rispetto di diversi requisiti, definiti per ciascuna tipologia di prodotto, tenendo conto del suo intero ciclo di vita. Vengono fissati valori soglia e limiti di prestazioni da rispettare, la cui conformità è certificata dall’organismo preposto. Sono dette anche “marchi di qualità ambientale”.

2) Etichette ambientali di tipo II: si tratta della realizzazione di proprie etichette ambientali, che riportano dichiarazioni volontarie e/o i relativi simboli (UNI EN ISO 14021:2016 “Etichette e dichiarazioni ambientali – Asserzioni ambientali auto-dichiarate”). Sono realizzate da produttori, importatori o distributori, che riportano “autodichiarazioni” non convalidate né certificate da organismi indipendenti (self declared environmental claims). Il fatto che non vi sia una certificazione da una parte terza, non significa che queste etichette non debbano possedere requisiti di attendibilità e serietà nei riguardi del consumatore e dell’utenza in genere; infatti, secondo lo standard ISO 14021, queste etichette devono contenere dichiarazioni non ingannevoli, verificabili (la documentazione relativa alle qualità ambientali dichiarate deve essere resa disponibile a richiesta), specifiche e chiare, non soggette ad errori di interpretazione.

3) Etichette ambientali di tipo III: sono costituite dalla formulazione di una Dichiarazione Ambientale di Prodotto, detta DAP o EPD (Environmental Product Declaration) (UNI EN ISO 14025:2010 “Etichette e dichiarazioni ambientali”). Prevedono una verifica e convalida da parte di organismi terzi accreditati, che ne garantiscono credibilità e veridicità. Le DAP comunicano il profilo ambientale di un prodotto (il suo impatto nell’intero ciclo di vita per diverse categorie di impatto ambientale), hanno carattere informativo e riguardano tutti gli aspetti ambientali e gli impatti potenziali: dalla concezione allo smaltimento del prodotto.

In tale ambito si ricorda, altresì, la specifica tecnica UNI ISO/TS 17033:2019 “Asserzioni etiche e informazioni di supporto”, la quale introduce a livello internazionale principi e requisiti (affidabilità, trasparenza, rilevanza, equità) per la formulazione di dichiarazioni etiche, nel caso in cui non siano previste norme specifiche oppure per integrare norme già esistenti.

La UNI ISO/TS 17033, tuttavia, non si sostituisce a norme esistenti più dettagliate e specifiche. Pertanto, con riferimento alle dichiarazioni relative allo sviluppo sostenibile, andrà utilizzata la sopra vista serie ISO 14020 quale supporto alla parte ambientale delle dichiarazioni stesse.

 

Le “autodichiarazioni ambientali”

Con riferimento alle sopra citate etichette ambientali di tipo II, come detto, anche se si tratta di casi in cui non vi sia un intervento da parte di un ente di certificazione o un controllo di parte terza, non significa che i “green claim” possano essere formulati in assenza di regole.

A tale proposito, la ISO 14021 fornisce requisiti ed esempi concreti per la comunicazione ambientale di prodotto; in sintesi:

– non sono ammessi claim vaghi e non specifici, ad es. «benefico per l’ambiente», «sicuro per l’ambiente», «amico dell’ambiente», «amico della Terra», «non inquinante», «green», «amico della natura», «amico dell’ozono»; così come non sono ammessi claims generici sulla sostenibilità;

– il claim «…free» (senza) può essere usato solo se il livello della sostanza non supera la nota traccia del contaminante o la concentrazione di fondo. Se l’utilizzo di una certa sostanza è vietato dalla legge, il claim “… free” con riferimento a suddetta sostanza non deve essere usato [si veda sul punto, in ambito alimentare, il divieto di cui all’art. 7, parag. 1, lett. c) del Reg. UE n. 1169/2011];

– il claim deve essere: accurato, chiaro e non fuorviante, verificabile, rilevante per il prodotto e appropriato al contesto, specifico per l’aspetto ambientale, omnicomprensivo degli aspetti rilevanti per il ciclo di vita del prodotto, onesto (non omettere aspetti rilevanti), aggiornato in base alle innovazioni tecnologiche;

– l’uso di simboli deve essere semplice, facilmente riproducibile, riconoscibile, da non confondere con sistemi di gestione ambientale o certificazioni non possedute.

Peraltro, sempre in punto di «autodichiarazioni ambientali», vanno menzionati, quali documenti di approfondimento e, se vogliamo, regole di condotta, le Linee Guida UE «Dichiarazioni “verdi” fuorvianti – Estratto dagli orientamenti per l’attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali» (in https://ec.europa.eu/environment/eussd/pdf/green_claims/it.pdf), nonché il codice di autodisciplina pubblicitaria (CAP), che all’art. 12, dedicato alla “Tutela dell’ambiente naturale”, prevede che “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”.

Il greenwashing

Per finire, quando le cd. “dichiarazioni ambientali” sono false o non possono essere verificate, si può parlare di greenwashing ovvero marketing ambientale fuorviante.

Da Wikipedia: un neologismo indicante la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente causati dalle proprie attività o dai propri prodotti.

Al fine di comprendere quando ci si trovi di fronte al fenomeno del greenwashing, interessante e utile si appalesa la lista dei cd. “sette peccati capitali” (Terrachoice, 2010), che ne delineano le caratteristiche:

  1. Peccato di informazione omessa: suggerire che un prodotto è “green” in base a un insieme limitato di caratteristiche, senza prestare attenzione ad altri importanti problemi ambientali;
  2. Peccato di mancanza di prove: quando le dichiarazioni ambientali non sono supportate da dati, informazioni o prove facilmente verificabili, o da certificazioni indipendenti;
  3. Peccato di vaghezza: quando le affermazioni sono così generiche o imprecise che il loro reale significato non è comprensibile per il consumatore;
  4. Peccato di irrilevanza: quando le affermazioni possono essere vere, ma non sono rilevanti o non aiutano il consumatore nella scelta dei prodotti ecologici;
  5. Peccato del minore dei due mali: quando le affermazioni possono essere vere all’interno di una specifica categoria di prodotti, ma tendono a distrarre il consumatore dal fatto che il consumo di quello specifico prodotto ha di per sé un grande impatto ambientale;
  6. Peccato di bugie: quando vengono fatte semplicemente dichiarazioni false;
  7. Peccato di false etichette/falsi marchi: quando attraverso parole, immagini o simboli un prodotto fornisce la falsa impressione di possedere una certificazione ambientale da parte di un soggetto indipendente, ma in realtà così non è.

Il regime sanzionatorio a fronte di possibili illeciti perpetrati a mezzo di informazioni etico-ambientali non conformi al vigente sistema normativo sarà trattato in una prossima occasione di approfondimento.

 

[1] Tratto da Politiche dell’UE in materia di tutela dei consumatori – Dossier n° 56 del 15 febbraio 2022, Camera dei Deputati, Ufficio Rapporti con l’Unione europea, XVIII Legislatura – Documentazione per le Commissioni – Attività dell’Unione europea

[2] Parere espresso nell’ambito della 571a Sessione plenaria del 13.7.2022 – 14.7.2022, pubblicato in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea – C 443/75 del 22.11.2022

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