SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UE NELLA CAUSA C-510/23: UN’ANALISI DELL’INCOMPATIBILITÀ DEI TERMINI DECADENZIALI NAZIONALI CON LA TUTELA EFFETTIVA DEI CONSUMATORI

avv. Valeria Pullini

La recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Ue del 30 gennaio 2025 nella causa C-510/23[1] rappresenta un significativo intervento giurisprudenziale in materia di tutela dei consumatori e pratiche commerciali sleali.

La sentenza affronta specificamente la questione relativa alla compatibilità della normativa italiana, che impone all’AGCM un termine decadenziale di 90 giorni per la comunicazione degli addebiti, con gli obiettivi di tutela dei consumatori previsti dalla Direttiva 2005/29/CE.

La Corte ha stabilito che tale termine, interpretato restrittivamente dalla giurisprudenza amministrativa italiana, costituisce un ostacolo all’efficace applicazione delle norme unionali a tutela dei consumatori, delineando così un importante principio in materia di bilanciamento tra garanzie procedurali ed effettività del diritto dell’Unione europea.

 

Il contesto della controversia (in fatto e in diritto)

La causa trae origine da un rinvio pregiudiziale proposto dal TAR per il Lazio nell’ambito di una controversia che vede contrapposti Trenitalia Spa e l’AGCM, con l’intervento di Federconsumatori.

Anche in questo caso, come altre volte in precedenza, la pronuncia della Corte non riguarda uno specifico caso di diritto alimentare, ma ne è in ugual misura strettamente e direttamente connessa, posto che la procedura amministrativa italiana relativa all’accertamento degli illeciti di attribuzione dell’Antitrust è la medesima anche per il campo dell’alimentazione e, più in particolare, per gli illeciti che, nell’ambito di tale settore, sono perpetrati a danno della lealtà nelle pratiche commerciali tra professionisti e consumatori.

Il nucleo della questione riguarda l’interpretazione dell’art. 11 della Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali, disposizione che impone agli Stati membri di predisporre mezzi adeguati ed efficaci per combattere tali pratiche a tutela dei consumatori.

Il caso specifico si inserisce in un contesto di consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato italiano che, applicando l’art. 14 della legge n. 689/1981 anche alle procedure condotte dall’AGCM, ha delineato un rigido termine decadenziale di 90 giorni entro cui l’Autorità deve procedere alla comunicazione degli addebiti, a pena di annullamento integrale del provvedimento finale[2].

Tale interpretazione ha come presupposto che il termine decadenziale decorra dal momento in cui l’AGCM viene a conoscenza degli elementi essenziali della violazione, che secondo l’orientamento giurisprudenziale possono “esaurirsi nella prima segnalazione dell’illecito”.

La peculiarità di questo orientamento risiede non solo nella ristrettezza del termine, ma anche nella severità delle conseguenze in caso di sua inosservanza: l’annullamento integrale del provvedimento sanzionatorio e l’impossibilità per l’Antitrust di avviare un nuovo procedimento per i medesimi fatti, in applicazione del principio del ne bis in idem[3] (per una più approfondita disamina del principio del ne bis in idem v. infra).

Questa interpretazione ha condotto a frequenti annullamenti di provvedimenti sanzionatori dell’AGCM, sollevando dubbi sulla compatibilità di tale prassi con gli obiettivi della Direttiva 2005/29/CE.

 

La normativa europea di riferimento

La direttiva 2005/29/CE rappresenta uno strumento fondamentale nella tutela dei consumatori a livello europeo, mirata a garantire un elevato livello di protezione contro le pratiche commerciali sleali.

Sul punto, gli artt. 11 e 13 di tale direttiva risultano centrali nella questione sottoposta alla Corte di Giustizia:

– l’art. 11 impone agli Stati membri di predisporre “mezzi adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali sleali“, mentre

– l’art.13 richiede che le sanzioni applicabili siano “effettive, proporzionate e dissuasive“.

La ratio della direttiva, come evidenziato dalla Corte, è quella di contribuire al conseguimento di un livello elevato di tutela dei consumatori, garantendo che le pratiche commerciali sleali siano efficacemente contrastate.

Tale obiettivo si inserisce nel più ampio quadro della protezione dei consumatori nel mercato interno dell’Unione europea, valore che trova espressione anche nell’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue.

 

L’analisi della Corte di Giustizia: il principio di effettività nel contesto della tutela dei consumatori

La Corte di Giustizia ha fondato la propria analisi sul principio di effettività, cardine dell’ordinamento giuridico dell’Ue.

Secondo tale principio, le modalità procedurali previste dagli ordinamenti nazionali non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che il termine decadenziale di 90 giorni, interpretato restrittivamente dalla giurisprudenza italiana, comprometta l’effettività della tutela dei consumatori prevista dalla Direttiva 2005/29/CE.

La sentenza evidenzia come la specificità delle pratiche commerciali sleali, che spesso richiedono indagini complesse e articolate, mal si concili con un termine così ristretto per l’avvio della fase istruttoria in contraddittorio.

Questo è particolarmente vero considerando che, secondo l’interpretazione del Consiglio di Stato, il dies a quo per il calcolo del termine può coincidere con la prima segnalazione dell’illecito, anche quando questa non contiene tutti gli elementi necessari per una valutazione completa della fattispecie[4].

Un aspetto fondamentale affrontato dalla Corte riguarda il bilanciamento tra l’esigenza di garantire un’efficace tutela dei consumatori e la necessità di rispettare i diritti di difesa delle imprese.

La Corte riconosce l’importanza di prevedere garanzie procedurali a tutela delle imprese sottoposte a procedimenti sanzionatori, ma sottolinea come tali garanzie non possano tradursi in ostacoli sproporzionati all’efficace applicazione delle norme a tutela dei consumatori.

In particolare, la Corte rileva che sebbene il diritto dell’Unione non osti in linea di principio alla previsione di termini ragionevoli per l’avvio dei procedimenti, le conseguenze automatiche previste dall’ordinamento italiano in caso di inosservanza del termine – come si diceva, annullamento integrale del provvedimento e impossibilità di avviare un nuovo procedimento – risultano sproporzionate e incompatibili con gli obiettivi della direttiva 2005/29/CE.

 

La decisione della Corte di Giustizia

Alla luce di queste considerazioni, la Corte ha dichiarato che gli artt. 11 e 13 della Direttiva 2005/29/CE, letti alla luce del principio di effettività, ostano a una normativa nazionale che:

  1. imponga all’autorità nazionale di avviare la fase istruttoria in contraddittorio mediante la comunicazione degli addebiti entro un termine di 90 giorni decorrente dal momento in cui essa viene a conoscenza degli elementi essenziali dell’asserita violazione, potendo questi ultimi esaurirsi nella prima segnalazione dell’illecito;
  2. sanzioni l’inosservanza di tale termine con l’annullamento integrale del provvedimento finale ad esito della procedura d’infrazione;
  3. determini la decadenza dal potere dell’autorità di avviare una nuova procedura d’infrazione riguardante la stessa pratica.

La pronuncia stabilisce, quindi, un importante limite all’autonomia procedurale degli Stati membri, ribadendo che le modalità procedurali nazionali non possono svuotare di contenuto le norme sostanziali dell’Unione europea in materia di tutela dei consumatori.

 

Conseguenze per la giurisprudenza amministrativa italiana

La sentenza in parola impone un ripensamento dell’orientamento giurisprudenziale consolidato del Consiglio di Stato in materia di termini per la contestazione degli addebiti nei procedimenti dell’AGCM.

I giudici nazionali saranno, infatti, chiamati a superare l’interpretazione dell’art. 14 della L. 68919/81 nella parte in cui essa risulta incompatibile con gli obiettivi della Direttiva 2005/29/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia.

Questo comporterà verosimilmente un rafforzamento della posizione dell’AGCM nei procedimenti sanzionatori in materia di pratiche commerciali sleali, con minori possibilità per le imprese di ottenere l’annullamento dei provvedimenti sanzionatori sulla base di mere violazioni procedurali legate al mancato rispetto del termine di 90 giorni.

Sul piano sostanziale, la sentenza rappresenta senza dubbio un rafforzamento anche nella tutela dei consumatori nel mercato italiano, che si inserisce nel più ampio contesto degli sforzi dell’Unione europea per garantire un elevato livello di protezione dei consumatori nel mercato interno, come testimoniato anche da altre recenti pronunce della Corte di Giustizia in materia di pratiche commerciali sleali, quale ad esempio la sentenza del 5 dicembre 2024 nella causa C-379/23, che ha contribuito a chiarire la nozione di “prodotto” ai sensi della direttiva 2005/29/CE[5].

 

La ricerca di un equilibrio tra effettività del diritto UE e autonomia procedurale nazionale: il rispetto dei termini ragionevoli nei procedimenti amministrativi

La sentenza della Corte non nega l’importanza di garantire che i procedimenti amministrativi si svolgano entro termini ragionevoli, a tutela della certezza del diritto e dei diritti della difesa delle imprese.

Ciò che viene censurato è piuttosto l’eccessiva rigidità del sistema italiano, che prevede un termine breve e perentorio con conseguenze automatiche e sproporzionate in caso di sua inosservanza.

La Corte suggerisce, quindi, la necessità di un approccio più flessibile, che tenga conto della complessità delle indagini in materia di pratiche commerciali sleali e che non sacrifichi l’efficacia della tutela dei consumatori sull’altare di un formalismo procedurale eccessivamente rigido.

 

L’autonomia procedurale degli Stati membri e i suoi limiti

Si osserva, inoltre, che la sentenza della Corte si inserisce nel più ampio dibattito sui limiti dell’autonomia procedurale degli Stati membri nell’attuazione del diritto dell’Ue.

Se, da un lato, la Corte riconosce che, in assenza di una disciplina procedurale armonizzata a livello Ue, spetta agli Stati membri definire le modalità procedurali per l’applicazione delle norme sostanziali, dall’altro ribadisce che tale autonomia incontra il limite rappresentato dai principi di equivalenza e di effettività.

Nel caso di specie, è proprio il principio di effettività a rappresentare il parametro decisivo per valutare la compatibilità della normativa italiana con il diritto dell’Unione.

La Corte riafferma così il primato dell’effettività del diritto Ue rispetto alle norme procedurali nazionali che possano comprometterne l’applicazione.

Dichiarando l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di una normativa nazionale che impone termini decadenziali restrittivi per l’avvio dei procedimenti sanzionatori, la Corte ha ribadito l’importanza di garantire l’effettiva applicazione delle norme a tutela dei consumatori previste dalla direttiva 2005/29/CE.

Ciò che emerge dalla sentenza è la necessità di addivenire ad un bilanciamento tra l’autonomia procedurale degli Stati membri e la necessità di garantire l’effettività del diritto dell’Unione.

Nel fare ciò, la Corte ha contribuito a chiarire i limiti entro cui gli Stati membri possono esercitare la propria discrezionalità nel definire le modalità procedurali per l’applicazione delle norme sostanziali dell’Ue.

 

Il principio del ne bis in idem nella sentenza della Corte di Giustizia UE del 30 gennaio 2025

Come sopra accennato, la sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue in esame affronta in modo significativo l’applicazione del principio del ne bis in idem nel contesto delle procedure sanzionatorie in materia di tutela dei consumatori.

Nella controversia che ha originato la pronuncia pregiudiziale della Corte emerge chiaramente come il principio del ne bis in idem venga applicato nel sistema italiano in modo particolare. La normativa nazionale, come visto sopra, prevede un rigoroso termine di decadenza di 90 giorni entro cui l’AGCM deve procedere alla comunicazione degli addebiti a partire dal momento in cui viene a conoscenza degli elementi essenziali della violazione.

Ciò che risulta particolarmente problematico è il regime sanzionatorio previsto in caso di inosservanza di tale termine.

Sul punto, secondo la sopra riportata interpretazione della normativa italiana, il mancato rispetto del termine di 90 giorni comporta non solo l’annullamento integrale e automatico del provvedimento finale adottato dall’AGCM, ma anche l’impossibilità per l’Autorità di avviare una nuova procedura d’infrazione per i medesimi fatti.

Tale impossibilità deriva proprio dall’applicazione del principio del ne bis in idem, che in questo contesto assume la funzione di precludere definitivamente l’esercizio del potere sanzionatorio dell’Antitrust.

 

La differenza tra ne bis in idem nel diritto UE e nel diritto italiano

È importante sottolineare come questa interpretazione del principio del ne bis in idem si differenzi significativamente dalla concezione europea dello stesso principio.

Come evidenziato nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, il principio del ne bis in idem espresso nell’art. 50 della Carta di Nizza ha una formulazione diversa rispetto a quello stabilito nella Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen (CAAS).

In particolare, nella Carta di Nizza non è stata inserita la “clausola di esecuzione” prevista dall’art. 54 CAAS, né sono previste le eccezioni contemplate dall’art. 55 della CAAS[6].

Questa differenza di impostazione è fondamentale per comprendere la problematica sollevata nel caso in esame.

Mentre nel contesto europeo il principio viene interpretato alla luce di un bilanciamento con altri interessi fondamentali dell’Unione, nell’ordinamento italiano esso viene applicato in modo rigido e automatico, determinando la definitiva preclusione di un nuovo esercizio del potere sanzionatorio, indipendentemente da considerazioni relative all’effettività della tutela dei consumatori.

 

L’approccio della Corte di Giustizia: bilanciamento e proporzionalità

La Corte di Giustizia ha sviluppato un approccio al principio del ne bis in idem basato su un’analisi di proporzionalità, in conformità con l’art. 52, parag. 1, della Carta di Nizza.

Secondo tale approccio, eventuali limitazioni al principio possono essere giustificate se perseguono un obiettivo di interesse generale connesso allo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia[7].

Questo approccio bilanciato contrasta con l’applicazione rigida e automatica del medesimo principio nel contesto italiano, dove l’inosservanza di un mero termine procedurale porta alla definitiva impossibilità di perseguire potenziali violazioni delle norme a tutela dei consumatori. La Corte di Giustizia sembra dunque suggerire che tale applicazione possa risultare sproporzionata e incompatibile con l’obiettivo di garantire un’efficace tutela dei consumatori nel mercato interno.

Un ulteriore elemento di complessità riguarda le condizioni di operatività del principio del ne bis in idem.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il principio opera quando l’azione penale sia definitivamente estinta, a seguito di esame nel merito, secondo il diritto dello Stato che ha pronunciato la prima decisione.

Inoltre, il principio si applica indipendentemente dal fatto che tale decisione provenga da un giudice, che assuma la forma di una sentenza o che sia stata irrogata una sanzione[8].

Questa impostazione è particolarmente rilevante nel contesto della causa C-510/23, poiché solleva dubbi sulla legittimità di un’interpretazione che preclude l’avvio di un nuovo procedimento sanzionatorio, non a seguito di una decisione sul merito, ma semplicemente in conseguenza dell’inosservanza di un termine procedurale.

La qui esaminata sentenza della Corte di Giustizia, quindi, ha potenzialmente un impatto significativo sul sistema italiano di tutela dei consumatori.

 

Le conseguenze per i procedimenti sanzionatori dell’AGCM

Per quanto riguarda specificamente i procedimenti sanzionatori dell’AGCM, la sentenza potrebbe portare a un significativo rafforzamento dei poteri dell’Autorità.

Infatti, venendo meno l’interpretazione rigida e automatica del principio del ne bis in idem in caso di inosservanza del termine di 90 giorni, l’AGCM potrebbe avere maggiori possibilità di perseguire efficacemente le pratiche commerciali sleali, anche in caso di irregolarità procedurali.

Ciò non significa, naturalmente, che i diritti di difesa delle imprese non debbano essere adeguatamente tutelati.

La sfida per il sistema italiano sarà quella di trovare un giusto equilibrio tra l’esigenza di garantire un’efficace tutela dei consumatori e la necessità di rispettare i diritti delle imprese sottoposte a procedimenti sanzionatori.

 

[1]Il testo completo della sentenza è rilevabile nel sito di Curia: https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=294782&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=11125322

[2] P. Manzini, L’AGCM fa novanta? Il termine decadenziale di novanta giorni per l’applicazione delle sanzioni dell’AGCM al vaglio della Corte di giustizia, in I Post di AISDUE, V (2023), aisdue.eu Sezione “Articoli”, n. 14, 8 novembre 2023 – Quaderni AISDUE, in https://www.aisdue.eu/wp-content/uploads/2023/11/Post-Pietro-Manzini-2.pdf

[3] P. Manzini, op. cit.

[4] P. Manzini, op. cit.

[5] cfr. http://www.europeanrights.eu/public/sentenze/it_copy_9.pdf

[6] E. Serrao in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione, Il principio europeo del ne bis in idem dopo la carta di Nizza, 2020, in https://www.unicost.eu/il-principio-europeo-del-ne-bis-in-idem-dopo-la-carta-di-nizza/

[7] E. Serrao, op. cit.

[8] E. Serrao, op. cit.

 

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