SPUNTI DI RIFLESSIONE IN TEMA DI PRATICHE COMMERCIALI SLEALI TRA IMPRESE NELLA FILIERA AGRICOLA E ALIMENTARE

avv. Valeria Pullini

 

Il 25 aprile 2019 veniva pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea la Direttiva (UE) n. 633/2019 del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare.

La ratio di un tale intervento normativo è racchiusa nel “considerando 1” della direttiva stessa, dove il legislatore europeo rappresenta come “nella filiera agricola e alimentare (siano) comuni squilibri considerevoli nel potere contrattuale tra fornitori e acquirenti di prodotti agricoli e alimentari. È probabile che tali squilibri nel potere contrattuale comportino pratiche commerciali sleali nel momento in cui partner commerciali più grandi e potenti cerchino di imporre determinate pratiche o accordi contrattuali a proprio vantaggio relativamente a un’operazione di vendita”, cosicché si è ritenuto opportuno “introdurre, nell’Unione, un livello minimo di tutela rispetto alle pratiche commerciali sleali per ridurne la frequenza, in quanto possono avere un effetto negativo sul tenore di vita della comunità agricola”.

Pertanto, la direttiva viene introdotta nell’ordinamento europeo allo scopo di contrastare le pratiche che si discostano nettamente dalle buone pratiche commerciali, sono contrarie ai principi di buona fede e correttezza e sono imposte unilateralmente da un partner commerciale alla sua controparte (v. art. 1, oggetto e ambito di applicazione).

A differenza dei regolamenti europei, che in quanto tali spiegano efficacia erga omnes e sono direttamente applicabili in ciascuno Stato membro, le direttive europee necessitano di una norma interna di recepimento, che ogni Stato membro deve adottare per conformarsi al relativo dettato.

In Italia, tale direttiva è stata recepita con l’ormai noto decreto legislativo n. 198/2021, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 285 del 30.11.2021.

Con tale decreto, l’Italia ha dato attuazione alla direttiva medesima, nonché all’art. 7 della Legge n. 53/2021 in materia di commercializzazione dei prodotti agricoli e alimentari.

 

  1. La Direttiva (UE) n. 633/2019 e il D. Lgs. 198/2021: alcuni contenuti a confronto

Dalla pubblicazione del decreto italiano di recepimento, molteplici sono stati e tuttora sono gli interventi a commento o riassunto del relativo contenuto, con particolare riferimento al novero delle pratiche commerciali sleali, in quanto tali vietate, ai principi che governano le buone pratiche commerciali e al sistema sanzionatorio, che qui si ricorda stabilire, in ciascuna previsione sanzionatoria, la clausola di riserva penale “salvo che il fatto costituisca reato”.

Tale clausola riserva l’applicazione preferenziale della sanzione penale su quella amministrativa, qualora la specifica condotta ivi considerata integri gli estremi di un reato.

Data, pertanto, la molteplicità dei contributi offerti da più fonti in ordine a quanto previsto e stabilito con il decreto nazionale, in questa sede eviteremo di incorrere in ripetizioni, ma cercheremo di soffermarci su alcuni punti della disciplina normativa in argomento che sul piano pratico ha destato difficoltà applicative.

 

L’obbligo del dato scritto

In primis, si ricorda che il campo di applicazione della disciplina normativa in commento è circoscritto ai rapporti commerciali tra imprese, con esclusione quindi degli accordi di cessione di prodotti agricoli e/o alimentari direttamente dal fornitore al consumatore.

Rientrano, invece, le transazioni commerciali effettuate tra imprese e autorità pubbliche, dato che queste ultime sono vincolate al rispetto delle stesse norme quando acquistano prodotti agricoli e alimentari. La direttiva, pertanto, si applica a tutte le autorità pubbliche che agiscano quali acquirenti. Lo stesso dicasi per quanto attiene al campo di applicazione del decreto nazionale di recepimento, ricavabile dalla definizione che lo stesso offre di “acquirente”, intenso come qualsiasi persona fisica o giuridica (compresi i gruppi di tali persone fisiche o giuridiche), indipendentemente dal luogo di stabilimento di tale persona, o qualsiasi autorità pubblica ricompresa nell’Unione europea che acquista prodotti agricoli e alimentari.

In secondo luogo, va segnalato che la direttiva europea non armonizza, tra le altre cose, la definizione di accordi di fornitura, che rimane pertanto stabilita dal diritto nazionale degli Stati membri.

In ordine ai contratti di fornitura, il decreto nazionale di recepimento stabilisce che i contratti di cessione debbano necessariamente essere conclusi mediante atto scritto, stipulato prima della consegna dei prodotti ceduti.

Si tratta di una disposizione imperativa, non altrimenti interpretabile, per la violazione della quale è prevista una sanzione amministrativa pecuniaria significativa, che può spingersi fino al 5% del fatturato realizzato nell’ultimo esercizio precedente all’accertamento.

La misura della sanzione, che non può mai essere inferiore a € 2.000,00, è determinata facendo riferimento al valore dei beni oggetto di cessione o al valore del contratto.

Tale contratto scritto deve indicare la durata, le quantità e le caratteristiche del/i prodotto/i venduto/i, il prezzo, che può essere fisso o determinabile sulla base di diversi criteri stabiliti nel contratto, le modalità di consegna e di pagamento.

Per contratto di cessione si intende il contratto che ha ad oggetto la cessione di prodotti agricoli e/o alimentari con contestuale consegna e pagamento del prezzo pattuito, secondo la definizione fornita dal decreto stesso [cfr. art. 2. lett. e)].

Esistono anche forme scritte equivalenti al contratto predetto, quali i documenti di trasporto o di consegna, le fatture, gli ordini di acquisto con i quali l’acquirente commissiona la consegna dei prodotti.

Ma attenzione: nei casi da ultimo considerati è necessario che gli elementi contrattuali più sopra elencati siano oggetto di previo accordo quadro tra acquirente e fornitore.

La definizione di accordo quadro è parimenti prevista all’art. 2 del decreto nazionale, individuato come un contratto di base, che può concludersi anche a livello di centrali di acquisto (nel qual caso devono essere indicati i nominativi degli associati che hanno conferito il mandato), avente ad oggetto la disciplina dei successivi e conseguenti atti esecutivi relativi alla cessione dei prodotti agricoli e alimentari.

Il contratto quadro fissa, quindi, le condizioni generali, tra cui sono contemplate le condizioni di compravendita, le caratteristiche dei prodotti, il listino prezzi, le prestazioni di servizi e le loro eventuali rideterminazioni.

I successivi atti esecutivi, ordini di acquisto, ecc. devono essere conformi alle clausole generali precedentemente fissate e costituiscono le singole applicazioni del contratto quadro.

Il D. Lgs. 198/2021 fa salva anche la definizione di contratto quadro prevista all’art. 1, comma 1, lett. f) del D. Lgs. 102/2005, ove lo stesso viene qualificato come l’accordo relativo ad uno o più prodotti agricoli avente per oggetto la produzione, la trasformazione, la commercializzazione, la distribuzione dei prodotti, nonché i criteri e le condizioni generali che le parti si impegnano a rispettare.

Quando la consegna e il pagamento del prezzo concordato non sono contestuali si parla di contratti di cessione con consegna pattuita su base periodica, i quali possono risolversi in un accordo quadro, come sopra definito, oppure in un contratto di fornitura con prestazioni periodiche o continuative.

 

Le soglie di fatturato

La Direttiva 633/2019 si applica alle pratiche commerciali sleali attuate nella vendita di prodotti agricoli e alimentari tra imprese fornitrici ed acquirenti, tenuto conto di determinate soglie di fatturato annuale.

Sul punto, al “considerando 9”, il legislatore europeo pone l’attenzione sul numero e sulle dimensioni degli operatori, i quali variano tra una fase e l’altra della filiera agricola e alimentare.

Le differenze nel potere contrattuale, che corrispondono alla dipendenza economica del fornitore dall’acquirente, possono portare gli operatori più grandi a imporre agli operatori più piccoli pratiche commerciali sleali.

Pertanto, un approccio basato sulle dimensioni del fornitore e dell’acquirente in termini di fatturato, dovrebbe fornire agli operatori che ne hanno maggiormente bisogno una maggiore tutela contro le pratiche commerciali sleali, dannose soprattutto per le imprese di dimensioni medio-piccole (PMI) presenti nella filiera agricola e alimentare.

Tali considerazioni hanno portato alla previsione, all’interno della direttiva, di scaglioni di fatturato annuale, il primo dei quali – quello minimo – riguarda la vendita da parte di fornitori con un fatturato annuale pari o inferiore a € 2.000.000 ad acquirenti con un fatturato annuale superiore a € 2.000.000.

Pertanto, le disposizioni della direttiva volte a contrastare le pratiche commerciali sleali tra fornitori e acquirenti dovrebbe escludersi in tutti i casi di impresa acquirente con un fatturato annuale pari o inferiore a € 2.000.000.

Le soglie di fatturato, tuttavia, non sono contemplate nel D. Lgs. 198/2021, il quale anzi prevede espressamente che le relative disposizioni si applichino alle cessioni di prodotti agricoli e alimentari, eseguite da fornitori che siano stabiliti nel territorio nazionale, indipendentemente dal fatturato dei fornitori e degli acquirenti.

Pertanto, le disposizioni nazionali per la disciplina delle relazioni commerciali e per il contrasto delle pratiche commerciali sleali nelle relazioni tra acquirenti e fornitori, si applica a tutte le imprese della filiera agricola e alimentare, comprese le ipotesi in cui l’impresa acquirente sia una microimpresa, così come definita dalla Raccomandazione della Commissione 2003/361/CE nonché dal DM 18.4.2015.

Questo, di primo acchito, ha condotto taluni ad ipotizzare un contrasto tra la norma italiana e la direttiva europea e, di conseguenza, un’ipotesi di illegittimità della suddetta previsione nazionale per violazione del diritto dell’Ue.

In realtà, non parrebbe essere così.

La Direttiva (UE) n. 633/2019, infatti, per stessa previsione del legislatore europeo, ha adottato un approccio di armonizzazione minima, consentendo agli Stati membri di adottare o mantenere norme nazionali ulteriori rispetto alle pratiche commerciali sleali elencate nella direttiva stessa (cfr. “considerando 1”).

In particolare, all’art. 9, la direttiva prevede che “per garantire un più alto livello di tutela, gli Stati membri possono mantenere o introdurre norme nazionali volte a contrastare le pratiche commerciali sleali più rigorose di quelle previste nella presente direttiva, a condizione che esse siano compatibili con le norme relative al funzionamento del mercato interno”.

Il legislatore Ue si spinge addirittura oltre, lasciando a ciascuno Stato membro una libertà di manovra particolarmente estesa, prevedendo, al parag. 2 del suddetto art. 9, che “La presente direttiva lascia impregiudicate le norme nazionali finalizzate a contrastare le pratiche commerciali sleali che non rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva, a condizione che esse siano compatibili con le norme relative al funzionamento del mercato interno”.

Non si ravvisa nemmeno, nella mancanza di previsione di soglie di fatturato da parte della norma italiana, un’incompatibilità con le norme di funzionamento del mercato interno (inteso come mercato dell’Ue), in quanto il campo di applicazione del decreto italiano è circoscritto ai contratti di cessione eseguiti da fornitori stabiliti nel territorio nazionale; il che porta fuori dalla relativa applicazione la gran parte delle cessioni eseguite da fornitori esteri.

Si rammenta, peraltro, che la portata delle disposizioni del D. Lgs. 198/2021 è particolarmente rigorosa, posto che le previsioni di cui agli artt. 3 (principi ed elementi essenziali dei contratti di cessione), 4 (pratiche commerciali sleali vietate),  5 (altre pratiche commerciali sleali) e 7 (vendite sottocosto) costituiscono norme imperative e prevalgono sulle eventuali discipline di settore con esse contrastanti, si badi bene, qualunque sia la legge applicabile al contratto di cessione di  prodotti agricoli e alimentari, con previsione di nullità di qualunque pattuizione o clausola contrattuale (ma non necessariamente dell’intero contratto) contraria a tali disposizioni (cfr. art. 1, parag 4).

 

  1. I termini di pagamento – alcuni chiarimenti

Con l’abrogazione – ad opera del D. Lgs. 198/2021 – dell’art. 62 del DL 24 gennaio 2012 n. 1, convertito dalla L. 27/2012, non è più possibile determinare il termine di – a seconda dei casi – 30 o 60 giorni dall’ultimo giorno del mese di emissione della fattura, in quanto attualmente deve farsi riferimento alla data di consegna o alla data in cui è stabilito l’importo da pagare.

Più nel dettaglio, come ormai noto, nei contratti di cessione con consegna pattuita su base periodica, il versamento del corrispettivo, da parte dell’acquirente di prodotti deperibili o non deperibili, non può essere superiore, rispettivamente, a 30 o a 60 giorni dal termine del periodo di consegna convenuto in cui le consegne sono state effettuate, che in ogni caso non può essere superiore a un mese, oppure dalla data in cui è stabilito l’importo da corrispondere per il periodo di consegna in questione, a seconda di quale delle due date sia successiva.

Nei contratti di cessione con consegna pattuita su base non periodica, il versamento del corrispettivo, da parte dell’acquirente di prodotti deperibili o non deperibili, non può essere superiore, rispettivamente, a 30 o a 60 giorni dalla data di consegna oppure dalla data in cui è stabilito l’importo da corrispondere, a seconda di quale delle due date sia successiva.

Sul punto, pur considerando i problemi di gestione per l’adattamento a tali nuove previsioni normative da parte delle imprese, si fa presente che viene altresì considerata sleale, a norma del D. Lgs. 198/2021, la previsione in contratto di una clausola che imponga al fornitore, successivamente alla consegna dei prodotti, un termine minimo prima di poter emettere la  fattura.

E’ tuttavia fatta salva (ed è perciò permessa ai sensi dell’art. 5, lett. k del decreto nazionale) l’ipotesi di consegna dei prodotti in più quote nello stesso mese, cosicché la fattura potrà essere emessa solo successivamente all’ultima consegna del mese.

 

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