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CENNI ALLA PIU’ RECENTE GIURISPRUDENZA EUROPEA E NAZIONALE IN TEMA DI TUTELA DEI REGIMI DI QUALITA’ (DOP/IGP)

avv. Valeria Pullini

Recentemente, sia la Corte di Giustizia dell’Unione europea, sia i Giudici nazionali si sono (nuovamente) occupati di regimi di qualità in materia alimentare, nella specie alcune DOP del settore caseario.

Alcune di tali pronunce meritano, qui, un breve approfondimento.

Corte di Giustizia dell’Ue, sentenza n. 125 del 14 luglio 2022 in causa C-159/20 (AOP Feta) – Commissione contro Danimarca

Come si rileva dal “Communications Directorate Press and Information Unit” presso la Corte di Giustizia stessa, in curia.europa.eu, in ambito europeo, con sentenza n. 125 del 14 luglio 2022 in causa C-159/20 (AOP Feta), Commissione contro Danimarca, la Corte di Giustizia ha statuito ad esito di una procedura d’infrazione, rilevando che la Danimarca – avendo mantenuto l’uso della denominazione “Feta” per un formaggio non registrato, ivi prodotto, destinato all’esportazione verso Paesi terzi – non abbia adempiuto e, perciò, abbia violato gli obblighi previsti dal diritto dell’Ue.

Il nome «Feta» è registrato come Denominazione di Origine Protetta (DOP) a far data dall’anno 2002.

Da allora, tale nome può essere utilizzato solo per il formaggio originario prodotto in Grecia, costituito di una miscela di latte di pecora e di capra, conforme alla normativa applicabile e alle specifiche di prodotto, previste in apposito disciplinare di produzione.

Prima censura: violazione dell’articolo 13 del Reg. (UE) n. 1151/2012

Nella predetta procedura d’infrazione, la Commissione, sostenuta da Grecia e Cipro, ha sollevato una prima censura relativa alla violazione, da parte delle Danimarca, degli obblighi previsti dal Reg. (UE) n. 1151/2012 sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari, non avendo impedito o fatto cessare l’uso, da parte dei produttori danesi, della denominazione «Feta» su di un formaggio prodotto in Danimarca, non oggetto di registrazione e destinato all’esportazione verso Paesi extra-Ue.

La Danimarca, dal canto suo, ha argomentato nel senso che il predetto regolamento si applichi solo ai prodotti commercializzati nell’Unione europea, non essendo esso applicabile – a sua detta – alle esportazioni verso Paesi terzi.

Sostenendo ciò, la Danimarca ha, quindi, implicitamente ammesso di non avere né impedito né ordinato la cessazione dell’utilizzo, da parte dei produttori danesi, della denominazione «Feta» in relazione a prodotti non DOP destinati all’esportazione verso Paesi terzi.

Nella sentenza qui in esame, la Corte ha rilevato:

1) in primo luogo che, secondo la formulazione del regolamento (UE) n. 1151/2012, l’uso di un nome registrato per designare alimenti non coperti dalla registrazione, i quali siano prodotti nell’Ue e destinati all’esportazione in Paesi terzi, non è escluso dal divieto previsto da tale regolamento;

2) in secondo luogo, che le DOP e le Indicazioni Geografiche Protette (IGP) sono tutelate come diritto di proprietà intellettuale dal regolamento (UE) n. 1151/2012. Infatti, il regime delle DOP e IGP è stato istituito per garantire una protezione uniforme delle denominazioni come diritto di proprietà intellettuale nel territorio dell’Ue. L’uso di una DOP o IGP per designare un alimento prodotto nel territorio dell’Unione, non oggetto di apposita registrazione, pregiudica, all’interno dell’Unione stessa, il diritto di proprietà intellettuale costituito da tale DOP o IGP, anche se tale prodotto è destinato all’esportazione verso Paesi terzi;

3) in terzo luogo, che gli obiettivi perseguiti dal regolamento stesso sono volti ad offrire un aiuto ai produttori di alimenti legati ad una particolare area geografica, garantendo loro un giusto ritorno in virtù della particolare qualità di tali prodotti e una protezione uniforme delle denominazioni come diritto di proprietà intellettuale nel territorio dell’Ue, la quale si estrinseca anche a mezzo di informazioni chiare ai consumatori sugli attributi di valore aggiunto dei prodotti stessi.

Pertanto, l’utilizzo della DOP «Feta» per designare prodotti fabbricati nel territorio dell’Unione che non siano conformi al disciplinare di produzione di tale DOP (“Feta falsa”) pregiudica tali obiettivi, anche se tali prodotti sono destinati all’esportazione verso Paesi terzi.

Risulta, quindi, dalla formulazione del regolamento (UE) n. 1151/2012, nonché dal suo contesto e dagli obiettivi da esso perseguiti, che tale uso costituisce un comportamento vietato da tale regolamento.

La Corte, in relazione a tale prima censura, ha concluso nel senso che, non avendo impedito o fatto cessare tale uso scorretto perpetrato nel proprio territorio, il Regno di Danimarca non ha rispettato, violandoli, gli obblighi e gli obiettivi previsti dal regolamento in parola.

Seconda censura: violazione dell’obbligo di leale cooperazione

La Commissione aveva sollevato un’ulteriore censura nella motivazione e nelle conclusioni del ricorso.

Sulla base di tale censura, il Regno di Danimarca, avendo omesso di prevenire o far cessare la produzione e la commercializzazione, da parte di produttori danesi, di imitazioni della “Feta”, avrebbe altresì commesso una violazione autonoma dell’articolo 4, paragrafo 3, TFUE, pregiudicando la posizione dell’Unione europea nei negoziati internazionali relativi alla protezione delle denominazioni registrate dall’Unione.

Ciò in quanto l’esportazione verso Paesi terzi, da parte degli operatori dell’Ue, di prodotti alimentari a mezzo dell’uso illecito di una denominazione protetta rischia di indebolire la posizione dell’Unione stessa nei negoziati internazionali, mirati a garantire la protezione dei regimi di qualità dell’Ue.

Tuttavia, nel caso specifico, la Corte non ha rilevato alcun elemento che consentisse di dimostrare il tentativo della Danimarca di pregiudicare i negoziati dell’Unione relativi alla protezione delle denominazioni registrate a livello internazionale (multilaterale o bilaterale).

In particolare, non è stato dimostrato che il Regno di Danimarca abbia intrapreso un’azione concreta di qualsiasi tipo, sul piano internazionale o nell’ambito di negoziati internazionali, contraria a una posizione concordata dell’Unione.

Cosicché, a differenza della prima, la seconda censura dedotta dalla Commissione è stata respinta.

Rimane fermo, tuttavia, il risultato maggiormente rilevante, ottenuto a mezzo di una statuizione in funzione pienamente protettiva della DOP stessa.

Ora, con il presente caso, la Corte ha quindi rimarcato, sigillandola, l’estensione territoriale della tutela offerta a DOP e IGP prodotte nell’Unione; tutela che si estende, pertanto, oltre i confini unionali, cosicché il divieto di utilizzare un nome protetto per un prodotto che di tale protezione non gode non può considerarsi limitato al territorio dell’Ue, ma è applicabile anche quando il prodotto stesso sia destinato all’esportazione.

Quando la giurisprudenza, in particolare quella della Corte di Giustizia, interviene in tema di tutela dei regimi di qualità, non si può non riportare alla memoria la “vecchia”, ancorché attualissima, sentenza “Parmesan” (CdG, sentenza 26 febbraio 2008, in causa C-132/05 – Commissione contro Germania).

L’oggetto del contendere, pur vertendo in tema di protezione di DOP e IGP, in quel caso era diverso, riguardando una chiara – quanto odiosa – ipotesi di evocazione della DOP “Parmigiano Reggiano”.

In particolare, si ricorderà come la Germania sostenesse la possibilità d’uso del nome “Parmesan” in quanto, a sua detta, nome generico, comunemente utilizzato dai produttori tedeschi nel commercio di formaggi a pasta dura, non oggetto di registrazione e, quindi, non conformi al disciplinare di produzione della DOP “Parmigiano Raggiano”.

A fronte dell’evidente capacità evocativa del nome “Parmesan”, la Corte aveva così argomentato:

“nella presente causa esistono analogie fonetiche ed ottiche tra le denominazioni “Parmesan” e “Parmigiano Reggiano” in un contesto in cui i prodotti di cui è causa sono formaggi a pasta dura, grattugiati e da grattugiare, cioè simili nel loro aspetto esterno”… “Tale somiglianza è idonea ad indurre il consumatore a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP “Parmigiano Reggiano” quando si trova davanti ad un formaggio a pasta dura, grattugiato o da grattugiare, recante la denominazione “Parmesan”. In tale contesto l’uso della denominazione “Parmesan” dev’essere considerato un’evocazione della DOP “Parmigiano Reggiano” ai sensi dell’art.13 n.1 lett.b del  – allora vigente, oggi si fa riferimento al Reg. (UE) n. 1151/2012 – regolamento 2081/92”.

Ed ancora:

“dalla documentazione sottoposta alla Corte risulta che in Germania alcuni produttori di formaggio recante la denominazione “Parmesan” commercializzano tale prodotto con etichette che richiamano tradizioni culturali e paesaggi italiani. E’ legittimo dedurne che i consumatori di tale stato membro percepiscono il formaggio “Parmesan” come un formaggio associato all’Italia anche se, in realtà, è stato prodotto in un altro stato membro. Ne consegue che non avendo la repubblica federale di Germania dimostrato che la denominazione “Parmesan” riveste carattere generico, l’utilizzazione del termine “Parmesan” per formaggi che non sono conformi al disciplinare della DOP “Parmigiano Reggiano” deve essere considerata nella fattispecie lesiva della tutela riconosciuta dall’art.13 n.1 lett. B) del regolamento 2081/92”.

Ed a proposito di genericità dei termini e di evocazione, è nostrana una recentissima sentenza di primo grado del Tribunale di Venezia, Sezione Specializzata in materia di Impresa, il quale ha accolto il ricorso presentato dal Consorzio di Tutela del Grana Padano DOP contro la ditta Brazzale Spa in ordine all’uso del termine “grana”.

 

Tribunale di Venezia, Sezione Specializzata in materia di Impresa, sentenza del 25.5.2022, pubblicata il 9.6.2022 – Consorzio di Tutela del Grana Padano DOP contro Brazzale Spa

La vicenda nasce dall’uso, da parte della Brazzale Spa a mezzo di vari canali di comunicazione, del termine “grana” in relazione al proprio formaggio “Gran Moravia”; formaggio duro dalla stessa prodotto in Repubblica Ceca.

Facendo un passo indietro nel tempo, la questione relativa all’uso del termine “grana” era già stata ampiamente affrontata avanti al Tribunale di primo grado dell’allora CE, il quale, con sentenza del 12 settembre 2007 nella causa T-291/03, aveva accolto il ricorso presentato dal Consorzio di Tutela del Grana Padano DOP avverso l’Uami (Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno) e l’impresa Biraghi, annullando l’impugnata decisione della commissione di ricorso dell’Uami stesso, che aveva precedentemente confermato la registrazione come marchio comunitario del marchio nominativo “Grana Biraghi”.

In particolare, come si legge nel Comunicato stampa n. 57/07 del Tribunale di primo grado delle Comunità europee, in curia.europa.eu, nell’anno 1999, su richiesta della Biraghi Spa, produttore italiano di formaggi, l’Uami registrava, come marchio comunitario, il marchio nominativo “Grana Biraghi” per diversi tipi di formaggi. Lo stesso anno, il Consorzio di Tutela della DOP Grana Padano domandava e otteneva dalla divisione d’annullamento dell’Uami una dichiarazione di nullità di tale marchio, in ragione della registrazione dei marchi anteriori nazionali e internazionali “GRANA” e “GRANA PADANO” e della violazione della denominazione d’origine “Grana Padano”.

Successivamente, su ricorso della Biraghi Spa, la prima commissione di ricorso dell’Uami ribaltava la situazione, dichiarando che il termine “grana” fosse generico e descrittivo di una qualità essenziale dei prodotti e che, di conseguenza, l’esistenza della DOP “Grana Padano” non ostava alla registrazione del marchio comunitario “Grana Biraghi”.

Il Consorzio di Tutela richiedeva quindi al Tribunale di primo grado della CE di annullare tale decisione, così instaurando la summenzionata causa T-291/03, conclusasi favorevolmente per il Consorzio nell’anno 2007.

In tale pronuncia, il Tribunale ha ricordato, anzitutto, che il regolamento sul marchio comunitario lascia impregiudicate le disposizioni del regolamento sulla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari. Ai sensi di quest’ultimo, la domanda di registrazione di un marchio che riporti una denominazione registrata per prodotti che non sono oggetto della registrazione stessa o che usurpi, imiti o evochi una denominazione protetta deve essere respinta dall’Uami. Qualora il marchio sia già stato registrato, l’Uami deve dichiarane la nullità.

In particolare, al momento della richiesta di registrazione di un termine come marchio, l’Uami deve determinare se il termine stesso costituisca effettivamente una denominazione generica o, nel caso, verificare quale protezione debba essere accordata alle differenti componenti di una denominazione.

Continuando in tale disamina, il Tribunale di primo grado ha affermato che tale verifica – alla quale l’Uami non aveva adeguatamente proceduto – debba essere effettuata sulla base di un’analisi dettagliata dell’insieme dei fattori che possono determinare il carattere generico. Secondo le indicazioni già fornite dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, l’analisi dettagliata richiesta deve essere effettuata mediante indizi di ordine giuridico, economico, tecnico, storico, culturale e sociale, sulla base delle normative nazionali e comunitarie pertinenti e della loro evoluzione storica e deve fondarsi sulla percezione che il consumatore medio ha della denominazione (eventualmente conosciuta mediante sondaggi), così come sui dati relativi alla commercializzazione, tanto nello Stato membro d’origine del prodotto, quanto negli altri Stati membri.

Peraltro, nello specifico caso, il Tribunale ha altresì constatato come l’evoluzione del contesto normativo italiano e le prassi amministrative di sequestro sistematico dei formaggi recanti la sola indicazione «grana» siano linearmente indicativi della non genericità di tale denominazione.

Il Giudice europeo, pertanto, ha concluso statuendo sulla non genericità della denominazione “grana”, da ciò conseguendo l’impossibilità di registrare la denominazione “Grana Biraghi” come marchio comunitario a ciò ostando l’esistenza della DOP “Grana Padano”.

Tornando ai giorni nostri, forte anche di tale precedente giudiziario che lo ha direttamente riguardato (ancorché vi sia copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue in tema di tutela dei regimi di qualità da evocazioni, imitazioni e usurpazioni, non ultima la sentenza “Queso Manchego” del 2 maggio 2019, in causa C-614/17, ove la Corte di Giustizia ha risposto ai quesiti posti in via pregiudiziale dal “Tribunal Supremo” spagnolo in una controversia relativa all’evocazione di una DOP tramite l’utilizzo di segni figurativi), il Consorzio di Tutela della DOP Grana Padano ha adìto il Tribunale di Venezia, instaurando così un giudizio avverso la Brazzale Spa al fine di ottenere una pronuncia di cessazione del reiterato utilizzo del termine “grana” da parte di quest’ultima, idoneo altresì ad integrare un’ipotesi di concorrenza sleale.

Ed ha ottenuto ragione piena.

Il Tribunale veneziano ha, infatti, statuito nel senso che l’utilizzo del termine “grana”, nelle comunicazioni rivolte a terzi, anche a mezzo web o social network, in relazione al formaggio “Gran Moravia”, di produzione e commercializzazione della Brazzale Spa, costituisce violazione per illecita evocazione della DOP “Grana Padano”, nonché concorrenza sleale per scorrettezza professionale.

E’ stata, così, disposta la cessazione d’uso e la rimozione del detto termine da tutta la comunicazione dell’impresa soccombente.

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