Alimenti con indicazione della data di scadenza o del T.M.C. alterata o sostituita – Cassazione penale, Sez. III, sent. n. 46542/2024 e le SS.UU. del 2000

avv. Valeria Pullini

Nell’ambito di un’attività di commercio all’ingrosso di alimenti e bevande, il caso che qui occupa verte sulla detenzione di confezioni di riso recanti l’indicazione di un TMC in lingua inglese diversa da altra, in lingua italiana, riportata sulle medesime confezioni.

In particolare, l’amministratore unico di una s.r.l. aveva detenuto, in una cella frigorifera (dunque, non in un mero deposito), centinaia di confezioni di riso recanti una data di scadenza (in realtà, trattavasi di TMC) in lingua inglese (“exp. date June/24/2016”) diversa da altra, in lingua italiana, riportata sulle stesse confezioni (“Consumarsi preferibilmente entro il 08.03.2018“).

L’effettiva destinazione alla vendita veniva accertata dai Giudici del merito, sia di primo grado che d’appello, i quali hanno giudicato l’imputato colpevole del delitto di cui agli artt. 56, 515 cod. pen. (tentativo di frode in commercio) e condannato ad una pena pecuniaria.

Impugnata la sentenza d’appello avanti alla Cassazione, quest’ultima – con la sentenza in parola – confermava la condanna, considerando la motivazione del giudizio di merito del tutto solida, fondata su concreti elementi istruttori e priva di illogicità manifesta.

La Corte di Cassazione si è soffermata, segnatamente, sull’aspetto della destinazione alla vendita della merce de qua, valevole ad integrare il delitto di frode nell’esercizio in commercio, nella forma tentata. Reato che, se la destinazione alla vendita non vi fosse stata o non fosse risultata in modo chiaro, sarebbe stato mancante di un elemento costituito e, pertanto, non sarebbe stato integrato.

Il punto ha notevole importanza; vediamo come la Suprema Corte lo ha trattato nella sentenza in parola e quale è il precedente giurisprudenziale al quale ha fatto riferimento.

 

La sentenza della Cassazione penale, Sez. III, n. 46542/2024[1] ed i riferimenti alle SS.UU. del 2000

Secondo la Corte capitolina la sentenza di merito sottolineava come le dichiarazioni rese dall’imputato a propria difesa fossero risultate del tutto contraddittorie: dapprima, questi aveva sostenuto trattarsi di un errore di etichettatura, non corretto per esigenze di lavoro e, comunque, tale da non poter ingannare il cliente finale, in quanto l’etichetta in italiano non avrebbe comunque coperto quella in inglese.

Ciò avrebbe accreditato la possibile destinazione alla vendita delle confezioni di riso.

Successivamente, egli aveva invece affermato che dette confezioni sarebbero state destinate allo smaltimento, proprio perché scadute, e che a tal fine sarebbero state poste su un bancale con il cartello “Merce scaduta”, “poi volato via”.

Tale seconda versione, al contrario ed in modo inconciliabile con la prima, avrebbe condotto alla certa destinazione allo smaltimento della merce.

La Corte territoriale aveva correttamente  evidenziato che l’asserita inidoneità dell’etichetta in italiano a trarre in inganno un potenziale acquirente, risultando sulla confezione anche l’altra – corretta – in inglese, non poteva esser sostenuta, risultando evidente che la collocazione dell’attività e della merce in Italia rendeva del tutto verosimile che il prodotto sarebbe stato offerto in vendita proprio in tale Paese, e che dunque l’idoneità all’inganno della falsa indicazione non poteva essere negata.

Con riferimento, poi, alla destinazione allo smaltimento, la Corte d’appello sottolineava come questa versione risultasse palesemente contraddetta dal tempo trascorso dalla data di scadenza (rectius, data del TMC) all’accertamento, pari ad oltre un anno; peraltro, il cartello che sarebbe stato apposto sul bancale – e “poi volato via” – mai è stato rinvenuto in sede di accertamento, né mai prodotto.

Il ricorso è stato, quindi, rigettato, per i detti motivi ed anche in quanto la motivazione della sentenza del riesame non è stata ritenuta in contrasto – co e invece sostenuto dalla difesa dell’imputato –  con l’indirizzo delle Sezioni Unite della Corte: “come ben emerge dalle sentenze di merito, infatti, l’affermazione di responsabilità non si fonda sulla mera presenza della merce all’interno del deposito, ma su un complesso di elementi oggettivi e distinti che, letti contestualmente senza alcun vizio logico, hanno adeguatamente giustificato la pronuncia di condanna”.

Infatti, nel 2000 la Corte di cassazione a Sezioni Unite ha chiarito quali siano gli elementi oggettivi costitutivi del reato di frode nell’esercizio del commercio (art. 515 c.p.), nella forma del tentativo.

Elementi che di seguito andremo ad esaminare.

 

Corte di Cassazione, SS.UU., sentenza n. 28/2000

Si tratta di una sentenza massimata nei seguenti termini:

Integra il tentativo di frode in commercio, perché idonea e diretta in modo non equivoco alla vendita della merce ai potenziali acquirenti, la condotta dell’esercente che esponga sui banchi o comunque offra al pubblico prodotti alimentari scaduti sulle cui confezioni sia stata alterata o sostituita l’originale indicazione del termine minimo di conservazione. (Nell’affermare tale principio la Corte ha altresì precisato che il tentativo non è viceversa configurabile, per l’assenza del requisito dell’univocità degli atti, ove i prodotti con etichetta alterata o sostituita siano semplicemente detenuti all’interno dell’esercizio o in un deposito senza essere esposti o in qualche modo offerti al pubblico).

In quel caso, il reo aveva detenuto per la vendita, nell’esercizio di commercio ambulante di prodotti alimentari, barattoli di pomodoro contenenti un prodotto scaduto, sulla cui dicitura relativa al TMC era stata applicata un’etichetta recante una data successiva a quella originariamente indicata dal produttore.

Egli veniva condannato (con sentenza confermativa ad esito del giudizio di Cassazione) per il reato di tentata frode nell’esercizio del commercio (artt. 56 c.p. – delitto tentato, e 515 c.p. – frode nell’esercizio del commercio), avendo egli posto in essere atti diretti in modo non equivoco a consegnare ai potenziali acquirenti alimenti qualitativamente diversi da quelli dichiarati.

Tra le ragioni poste a difesa della posizione dell’imputato emergevano le seguenti due censure:

  • la vendita di prodotti con data di scadenza superata non integrerebbe il reato di tentata frode in commercio, ma la semplice violazione amministrativa sanzionata dagli – allora vigenti – artt. 10, comma 7, e 18 comma 2, del D. Lgs. 109/1992;
  • la semplice detenzione di quella merce non sarebbe di per sé sola idonea a realizzare gli estremi del tentativo di frode in commercio, difettando il requisito della univocità degli atti, in assenza di un inizio di contrattazione con un acquirente determinato.

Data superata e data alterata o sostituita: differenze formali e sostanziali

Quanto al primo assunto difensivo, le SS.UU. hanno sottolineato una differenza formale e sostanziale tra la vendita o l’esposizione per la vendita di alimenti con data di scadenza superata e la vendita o l’esposizione per la vendita di alimenti con data di scadenza (o TMC) alterata o sostituita.

Nello specifico caso, l’imputato non si era limitato a porre in vendita prodotti alimentari con data di scadenza superata, avendo esposto sul suo bancone alcuni barattoli di pomodoro recanti un TMC diverso da quello originariamente indicato dal produttore.

Tale condotta è risultata evidente in quanto sull’indicazione originale impressa sulle confezioni era stata sovrapposta un’etichetta recante una data diversa (successiva) che impediva ai consumatori di accertare la reale data entro la quale gli alimenti avrebbero dovuto essere consumati.

Un simile caso non poteva né può essere ricondotto alla diversa situazione di pura e semplice esposizione alla vendita di prodotti con data di scadenza superata, condotta idonea in effetti ad integrare un illecito amministrativo ai sensi dell’allora vigente D. Lgs. 109/1992, artt. 10, co. 7 e 18, co.2.

***

Per inciso, tuttora la cessione o l’esposizione per la vendita di alimenti con data di scadenza superata costituisce illecito amministrativo ai sensi del D. Lgs. 231/2017 (recante la disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del Reg. UE n. 1169/2011) il quale, all’art. 12, espressamente prevede che quando un alimento è ceduto a qualsiasi titolo o esposto per la vendita al consumatore finale oltre la sua data di scadenza, il cedente o il soggetto che espone l’alimento è soggetto ad una sanzione amministrativa pecuniaria, “salvo che il fatto costituisca reato”.

Tale specificazione è la cd. clausola di riserva penale, la quale indica che la disposizione sanzionatoria amministrativa si applica solo se il fatto non rientra in una fattispecie di reato, nel qual caso si applica la norma penale in luogo di quella amministrativa.

Non dovrebbe trattarsi, tuttavia, di un reato, consumato o tentato, di frode nell’esercizio del commercio (artt. 515 e segg. c.p.), bensì di un reato di comune pericolo (art. 444 c.p.), qualora l’alimento con data di scadenza superata sia accertato trovarsi in uno stato di inidoneità al consumo umano (alterazione, deterioramento, ecc.)

Altra e diversa situazione, invece, è quella della cessione o dell’esposizione per la vendita al consumatore finale di alimenti con TMC superato.

Per tale fattispecie, l’art. 12 del D. Lgs. 231/2017 non prevede un regime sanzionatorio analogo a quello sopra visto per il superamento della data di scadenza (che va riportata su prodotti alimentari altamente deperibili sotto il profilo microbiologico i quali, dopo un determinato lasso di tempo, possono diventare pericolosi per la salute se ingeriti- v. art. 24, Reg. UE n. 1169/2011).

Al contrario della scadenza, il TMC indica il periodo di tempo nel quale un prodotto alimentare, se correttamente conservato, mantiene le sue caratteristiche nutrizionali e organolettiche. Oltre tale data, l’alimento può ancora essere consumato in sicurezza (se correttamente conservato), ma potrebbe aver perso alcune delle sue caratteristiche qualitative [cfr. la definizione di TMC di cui all’art. 2, parag. 2, lett. r) del Reg. (UE) n. 1169/2011].

Per la vendita o l’esposizione alla vendita al consumatore finale di un alimento con TMC superato, l’ordinamento italiano non prevede alcuna specifica sanzione, né in ambito amministrativo né in quello penale.

***

Ora, tornando alla disamina del caso considerato dalle SS.UU. e, in particolare, alla differenza intercorrente tra la detenzione per la vendita di alimenti con data di scadenza superata (generalmente, illecito amministrativo) e la detenzione per la vendita di alimenti con data di scadenza (o TMC) alterata o sostituita, solo in quest’ultimo caso sono integrati gli estremi del delitto di tentata frode in commercio, vertendosi nell’ambito di una condotta idonea, diretta in modo non equivoco, alla consegna di cosa diversa per qualità da quella dichiarata.

La configurabilità del tentativo di frode in commercio: i due elementi della “idoneità” e “univocità

Con il secondo assunto difensivo, la difesa dell’imputato nel caso trattato dalle SS.UU. ha sostenuto che, per la sussistenza del delitto di tentata frode nell’esercizio del commercio di cui agli artt. 56 e 515 c.p., non sia sufficiente la sola esposizione per la vendita della merce, indipendentemente da qualsiasi rapporto con il cliente, ma che sia necessario un inizio di trattativa con l’eventuale acquirente.

Come indicato nella sentenza stessa, il Collegio ha affrontato la questione non in un’ottica globale, bensì con specifico riferimento alla vendita di alimenti recanti un TMC differente da quello originariamente indicato dal produttore, perché alterato o sostituito dal venditore.

In tale ambito, per stabilire se si sia in presenza di un delitto tentato ovvero di semplici atti preparatori non punibili, occorre fare riferimento ai concetti di “idoneità” e di “univocità” di cui all’articolo 56 c.p.

Si ricorda che il disposto di cui al comma 1 della norma da ultimo citata recita come segue:

Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.

Quanto al requisito dell’“idoneita”, esporre sul bancone di un esercizio commerciale prodotti alimentari scaduti, con la data di scadenza alterata/sostituita, costituisca atto idoneo a commettere un reato, ossia “un atto di per sé “capace di produrre l’evento” del delitto di frode in commercio e cioè la consegna all’acquirente di una cosa mobile non conforme a quella convenuta”.

In quel concreto caso, tuttavia, non veniva posto in discussione il requisito della “idoneità” degli atti posti in essere dall’imputato, quanto l’elemento della “univocità”, in difetto della quale non

sussiste il tentativo, ma solo azioni preliminari esenti da pena.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte sottolineavano come, per essere univoci, gli atti devono avere “un valore tale:

  • a) da rivelare l’intenzione di delinquere;
  • b) da escludere il dubbio che si tratti di un principio d’estrinsecazione dell’intenzione di compiere un fatto lecito o giuridicamente indifferente;
  • c) da manifestare l’intenzione di commettere un determinato delitto“.

Facendo riferimento a precedenti pronunce della stessa Corte, le SS.UU hanno chiarito come l’elemento dell’univocità degli atti, necessario per configurare un tentativo punibile, va accertato sulla base della caratteristiche oggettive della condotta criminosa, nel senso che questa, per sé e per il modo in cui si è estrinsecata, deve rivelare l’intenzione dell’agente, precisando che gli atti sono univoci, ossia diretti in modo non equivoco alla commissione di un delitto, allorquando essi rivelino – secondo le norme di esperienza e l’id quod plerumque accidit (ciò che generalmente accade) – l’intenzione, il fine dell’agente.

Da quanto sopra deriva che la semplice detenzione all’interno del negozio o di un deposito di prodotti alimentari scaduti e con etichetta alterata o sostituita, senza che questi siano esposti o in qualche modo offerti al pubblico (“detenzione ai fini della vendita”), non integra gli estremi del tentativo, essendo possibile che tale merce sia stata accantonata per essere successivamente eliminata e non potendosi, quindi, desumere con certezza da quella detenzione la reale intenzione dell’agente.

Ma se i prodotti in questione vengono esposti sui banchi dell’esercizio (come si è verificato nel caso concreto), o sono comunque offerti al pubblico, la condotta posta in essere dall’esercente dell’attività commerciale è invece idonea a dimostrare che la sua intenzione era quella di venderli agli acquirenti che si sarebbero presentati, con conseguente configurabilità del tentativo di frode in commercio.

Pertanto, per le SS.UU., ai fini dell’integrazione del delitto di frode nell’esercizio del commercio, nella forma tentata, non è necessario un inizio di trattativa con il potenziale acquirente finalizzata all’effettiva consegna di una cosa diversa da quella pattuita, ma nemmeno può ritenersi sufficiente la sola detenzione, presso l’esercizio commerciale, di merce diversa da quella dichiarata.

Occorre, quindi, che gli alimenti o 1) siano esposti oppure 2) siano “in qualche modo offerti al pubblico”.

Su quest’ultimo concetto si sono create divergenze di vedute nella giurisprudenza più recente in seno alla stessa Suprema Corte o, comunque, scostamenti significativi rispetto all’orientamento del 2000 delle Sezioni Unite.

L’indirizzo che ad oggi risulta prevalente[2] è nel senso che la condotta di semplice detenzione in magazzino di prodotti con caratteristiche diverse da quelle dichiarate o pattuite assurgere a tentativo di frode in commercio, anche in assenza di ulteriori elementi a sostegno di una concreta offerta al pubblico dei prodotti stessi.

Oggi configura, quindi, il delitto previsto dall’art. 515 c.p., nella forma tentata, anche la mera detenzione in magazzino di merce non rispondente per origine, provenienza, qualità o quantità a quella dichiarata o pattuita, trattandosi di un dato pacificamente indicativo della successiva immissione nella rete distributiva di tali prodotti; ciò vale anche nel caso in cui la merce sia detenuta da un commerciante all’ingrosso.

L’art. 515 c.p., infatti, facendo riferimento a chiunque ponga in essere la condotta delittuosa “nell’esercizio di un’attività commerciale ovvero in uno spaccio aperto al pubblico”, è finalizzato alla tutela sia del pubblico dei consumatori, sia degli stessi commercianti.

 

 

[1] Cassazione Penale, Sezione III, sentenza n. 46542 del 18 dicembre 2024, https://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20241218/snpen@s30@a2024@n46542@tS.clean.pdf

[2] Ex multis, in un caso di detenzione in magazzino di bottiglie di vino sofisticato, vedasi Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 36684/2023; in un caso di marcatura CE contraffatta, vedasi Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 9310/2013, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/1364487138sentenza%20n%209310-2013.pdf

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